Via i «corpi di reato» Polemica a Bologna

Polemica a Bologna
I frammenti raccolti il 4 agosto 1974 a San Benedetto Val di Sambro, dove una bomba fece esplodere un treno, l’espresso Roma- Brennero, provocando 12 vittime e passando agli annali della recente storia giudiziaria e civile del Paese come la strage dell’Italicus. Insieme a tanti altri oggetti collegati ad efferati delitti di ogni genere, alla storia nera del capoluogo emiliano. Come quelli repertati nell’appartamento dove la critica d’arte e docente Francesca Alinovi venne assassinata con 47 coltellate il 12 giugno 1983. Sono questi alcuni dei corpi di reato ammassati nell’archivio sotterraneo del Tribunale di Bologna e destinati al macero. E non da oggi. Un patrimonio storico, conservato negli scaffali polverosi, racchiuso nei sacchi o impacchettato; identificabile solo grazie a un numero riportato su un cartellino. Che è destinato a sparire per sempre. Per una volta non per colpa della ‘mala giustizia’ ma semplicemente perché così vuole la legge.
Secondo la quale queste tracce del crimine devono essere distrutte o smaltite quando non hanno più ragion d’essere, ovvero quando è intervenuta la sentenza definitiva per il processo cui ogni singolo reato faceva riferimento. Fino al 2008 il tribunale del capoluogo soffriva di quella particolare sindrome in forza della quale le cose non si buttano. Non necessariamente per inefficienza ma per un più o meno consapevole desiderio di non oltraggiare oltremodo la storia di una città tante volte ferita da violenze collettive o individuali. Come cestinare, si pensava probabilmente, i tanti piccolissimi frammenti, legati alla strage alla stazione di Bologna (abiti strappati, dentiere, l’asfalto distrutto dall’esplosione)? Un accumulo di tracce del crimine che non piacque agli ispettori inviati dall’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano.
E dopo quella visita l’eliminazione degli oggetti subì un’improvvisa accelerazione. Anche se alcuni ‘corpi’, dall’alto valore simbolico, scamparono alla distruzione. Come le pistole di ordinanza dei tre giovani carabinieri uccisi al Pilastro dalla banda della Uno bianca. E che oggi, grazie alla sensibilità di un’impiegata, sono custodite al Comando generale dei carabinieri di Roma. Un’altra clamorosa eccezione, volutamente sottratta alla grande discarica dei casi risolti, è il relitto del Dc9 di Ustica salvato da un museo della memoria costruito ad hoc dove continua a raccontare con essenziale vigore simbolico il dramma delle persone coinvolte nella strage.
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