Titanic, la tragedia metafora del Novecento

Un anniversario per riflettere. E scoprire che una nave di nome “Titan” era protagonista di uno spaventoso naufragio in un racconto – Vanity – pubblicato nel 1898…

I più recenti sono due racconti per ragazzi: l’intenso “Il musicista del Titanic” di Sebastiano Ruiz Migone (Interlinea, illustrazioni di Paolo D’Altan) e lo spettacolare “Io, Titanic” di Fulvia Degl’Innocenti, con le tavole di Sonia Maria Luce Possenti (Il Gioco di Leggere Edizioni), dove la tragedia del 14 aprile 1912 è rievocata dal punto di vista della nave. Ma a rendere unico il transatlantico dei transatlantici c’è anche il fatto che la storia letteraria del naufragio precede di buon margine lo svolgersi dei fatti. Lo ricordava già Walter Lord, autore nel 1955 di quel “Titanic, la vera storia” (ora riproposto da Garzanti) che per molto tempo ha rappresentato un punto fisso nella ricostruzione della sciagura: è a partire da questo libro, per esempio, che nel 1958 il regista inglese Roy Ward Baker realizzò il celebre “Titanic latitudine 41 nord”, destinato a rimanere il miglior film sull’argomento fino al trionfo del “Titanic” di James Cameron (1997), ora riprosto in 3D nei cinema.

Nella prima pagina della sua minuziosa ricognizione, dunque, Lord ricorda come nel 1898 l’altrimenti dimenticato narratore americano Morgan Robertson avesse pubblicato un racconto minatoriamente intitolato Vanità, nel quale una mastodontica nave da crociera va a fondo dopo che lo scafo è stato squarciato da un iceberg. Se la coincidenza non risulta ancora abbastanza significativa, si può aggiungere un dettaglio: il transatlantico immaginato da Robertson porta il nome di “Titan”, giusto per rendere chiara la metafora dell’inganno autodistruttivo nascosto nell’ostinazione del progresso. Si tratta, non a caso, della medesima riflessione suggerita da Gilbert Keith Chesterton in un commento vergato a ridosso della sciagura: «Tutta la nostra civiltà assomiglia invero al Titanic, nella sua potenza e nella sua impotenza, nella sua sicurezza e nella sua insicurezza – annotava l’autore dell’”Innocenza di padre Brown” –. Non c’era alcun ragionevole rapporto fra il livello delle misure previste per il lusso e per il piacere e il livello delle misure previste per il bisogno e la disperazione. Il progetto si era concentrato decisamente troppo sul benessere e troppo poco sul disagio: proprio come lo Stato moderno».

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