Il paradosso della caverna

di Anselmo Grotti
Mancava un giorno all’inizio della primavera 2014 quando i giornali hanno riportato una notizia incredibile proveniente da Parigi. Si è scoperto che quattro bambini, tra i due e mesi e i sei anni, non sono mai stati fatti uscire da casa. I loro genitori non li hanno mai portati dal medico, a fare una passeggiata, a incontrare un altro bambino, un gatto, una foglia secca sull’asfalto. Anche il bambino più grande non riesce quasi né a parlare né a camminare. «Sono bambini selvaggi che sono cresciuti da soli», hanno detto gli inquirenti. I genitori sono stati fermati, i bambini affidati ai servizi sociali.
Spostiamoci da Parigi 2014 ad Atene, IV secolo prima di Cristo. Socrate narra ai suoi discepoli un famoso mito, raccontato da Platone nel Libro X della Repubblica: il mito della caverna. Nel mito si racconta di persone nate in una caverna e che mai hanno potuto conoscere altro del mondo. Per loro dunque la realtà è la caverna, e se qualcuno da fuori scendesse nelle viscere della terra per raccontare loro l’esistenza di un mondo molto diverso, più ricco e complesso, con la luce e con la pioggia, con gli spazi e le relazioni, non solo non gli crederebbero: prima ancora non lo capirebbero.
Platone intende esprimere in forma allegorica un paradosso della comunicazione: per potersi comprendere occorre condividere già un sistema di riferimento. Se questo sistema comune manca sembra impossibile che avvenga la comunicazione. Nel mito filosofico si parte da una situazione volutamente assurda e irreale. O almeno così appare a una prima lettura. I fatti di Parigi sono la drammatica smentita di questa prima lettura: esistono casi in cui si è nelle condizioni di non fare nessuna esperienza del mondo oltre la propria caverna. Casi estremi ed evidenti come quello dei quattro bambini, ma anche casi meno evidenti (e più diffusi) di difficoltà o incapacità di vedere la realtà oltre un orizzonte ristretto. Anzi: forse questa – anche senza arrivare a situazioni così drammatiche – è la nostra condizione o almeno il nostro rischio. Forse ci stupiamo dei racconti di Platone o delle cronache da Parigi, e non ci rendiamo conto che di fatto viviamo in una “caverna” costituita dai nostri pregiudizi e dalle nostre abitudini. Come fare a uscirne, a liberarsi, a entrare davvero in comunicazione con l’altro?
Platone non è stato l’unico a immaginare una condizione così estrema per far capire la difficoltà della comunicazione senza un contesto. Anche Agostino riprende questo mito nei Soliloquia, e ci saranno tantissime varianti per dire cose simili. Si parlerà ad esempio di una madre che partorisce in carcere, e che avrà difficoltà a spiegare al bambino che c’è un mondo fuori da quelle sbarre – mentre infinte saranno le riprese fino ai giorni nostri, dalla letteratura al cinema (Matrix, The Island, Il Conformista; Saramago che scrive un racconto che chiama proprio La caverna). Non ci si deve limitare alle opere di fantasia: il tema è presente anche in molti lavori sull’intelligenza artificiale, perché pone la questione di come facciamo a darci una rappresentazione sensata e condivisa del mondo. La stessa fantasia poi precede per certi versi la realtà. Singolare ad esempio la sorte del film greco Dogtooth (2009; in Italia Kynodontas). In esso il regista Lanthimos immagina una famiglia che non ha mai fatto uscire fuori di casa i propri figli, al fine di isolarli dal mondo. Quasi una anticipazione dei fatti di Parigi, anche se l’alloggio della periferia parigina ha poco a che fare con la lussuosa villa greca. Realtà e immaginazione si richiamano dunque, fino alla bizzarria di una realtà che si ispira alla fantasia. Il punto è che quando la fantasia – e la riflessione filosofica – cercano di individuare le strutture profonde del nostro esistere colgono la realtà nella sua essenza, ci permettono di comprendere il senso degli avvenimenti. Nel caso in questione quello che possiamo chiamare il paradosso della caverna: come fare a comprendere qualcosa che è estranea alla nostra esperienza? Un paradosso che ci insegna due cose. La prima è la necessità per la comunicazione di non rimanere chiusi in un ambito ristretto, di imparare a superare i confini, a vedere le cose da un altro punto di vista (magari dalla periferia, come ci dice il papa Francesco, intesa anche come visione decentrata e innovativa sulla realtà). La seconda che le sconfitte e le fragilità che scontiamo in questo processo (le ferite della vita, le nostre insufficienze, la difficoltà a “comprendere” così ben esemplificate dagli stessi discepoli nei Vangeli) non sono in grado di impedire del tutto la realizzazione della comunicazione. La comunicazione, la relazione, l’uscita dalle nostre private caverne è possibile, anche se a volte con fatica e con limiti.
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