Quali parole per il futuro?

di Anselmo Grotti

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«Il futuro non è più quello di una volta»:  una frase ben impostata, arguta e capace di farci pensare. Chi l’ha scritta? Il riferimento più affidabile (ma non l’unico) ci rimanda a un testo del 1931 di  Paul Valèry[1]. La frase è diventata celebre dopo che il writer milanese Ivan Tresoldi l’ha scritta su di un muro alla stazione di Porta Genova a Milano nel 2002. Al di là delle questioni di paternità, credo che questa espressione ci sia molto utile per sintetizzare la presenza di più futuri nel nostro orizzonte culturale. Detto in estrema sintesi: siamo di fronte al passaggio da un futuro immaginato come promessa a un futuro temuto come minaccia. E – proseguono alcuni – patito come condanna.



[1]          La citazione “Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta” è spesso attribuita a  Paul Valéry, Regards sur le monde actuel , 1931. A dire la verità nell’originale francese è un po’ diversa; “L’avenir est comme le reste : il n’est plus ce qu’il était” (Valéry (Notre destin et les lettres, Regards sur le monde actuel, pag. 1062, Oeuvres II, Pléiade, Gallimard).  Il testo riporta acute riflessioni sulle mutazioni di lungo periodo, sul ruolo dell’innovazione tecnologica, sull’Europa, sulla globalizzazione e sull’ascesa potenziale della Cina. Valéry sostiene che nel XX secolo neppure Mefistofele  potrebbe predire il futuro. Non possiamo più pensare ad esso con la fiducia nei nostri sistemi tradizionali  di controllo. Qui utilizzo la frase nella versione di Ivan Tresoldi per evidenziare il passaggio dal futuro-promessa al futuro-minaccia ( e magari al futuro-condanna). Valéry opera un raffinato passaggio intermedio: la perdita di controllo sulle modalità di evolvere della storia genera la transizione da un futuro progettabile a un futuro imprevedibile e quindi minaccioso.

 

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