Un altro futuro è possibile

di Anselmo Grotti (Estratto da “Un altro futuro è possible”, 2013)
Il futuro non è più quello di una volta»: una frase ben impostata, arguta e capace di farci pensare. Chi l’ha scritta? Il riferimento più affidabile (ma non l’unico) ci rimanda a un testo del 1931 di Paul Valèry[1]. La frase è diventata celebre dopo che il writer milanese Ivan Tresoldi l’ha scritta su di un muro alla stazione di Porta Genova a Milano nel 2002[2]. Al di là delle questioni di paternità, credo che questa espressione ci sia molto utile per sintetizzare la presenza di più futuri nel nostro orizzonte culturale. Detto in estrema sintesi: siamo di fronte al passaggio da un futuro immaginato come promessa a un futuro temuto come minaccia. E – proseguono alcuni – patito come condanna.
Ma da quanto tempo c’è il futuro? Da molto tempo, ma non da sempre.
Il mondo che non conosce futuro
C’è stato un tempo in cui il futuro non esisteva. È il tempo del mondo antico, compreso quello dei Greci. I Greci non credevano al futuro, probabilmente neppure erano in grado di porsi la questione. Il tempo non ha futuro, ma è svolgimento perenne di un ciclo di vita e di morte. Come avevano fatto molto tempo prima di loro i Sumeri, anche i Greci non hanno nessuna fiducia che questo circolo si possa spezzare. La morte incombe paziente e inesorabile su ogni cosa. Il terribile semidio Gilgamesh, signore di Uruk, dapprima lotta ferocemente con Enkidu, poi si lega a lui di profonda amicizia. Terribile sarà il suo dolore alla morte di Enkidu, con cui ha condiviso molte vicende. Gilgamesh andrà in fondo agli oceani e nel buio degli inferi per strappare agli dei l’immortalità di Enkidu e sottrarlo all’Ade. Ma, nonostante a un certo punto sia arrivato a un passo dal suo obiettivo, Gilgamesh fallisce. Così lo interpella Siduri, la divina taverniera del giardino paradisiaco:
Gilgamesh, dove stai andando? | La vita che tu cerchi, tu non la troverai. | Quando gli dèi crearono l’umanità, | essi assegnarono la morte per l’umanità, | tennero la vita nelle loro mani. | Così , Gilgamesh, riempi il tuo stomaco, | giorno e notte canta e danza, | che i tuoi vestiti siano puliti, | che la tua testa sia lavata, lavati con acqua, | gioisci del bambino che tiene stretta la tua mano, | possa tua moglie godere del tuo petto[3].
Gli uomini possono aspirare a un momento di felicità, quello che i Greci chiameranno Akmè. Akmè significa “punta”, “culmine”. Potremmo tradurla anche con “fioritura”, vertice, una sorta di apogeo. Non a caso nella Grecia arcaica e classica il termine è usato al posto della data di nascita (lo fa ad esempio Apollodoro di Atene nella sua Chronikà[4]). Dopo la fioritura però la pianta appassisce e inevitabilmente muore.
Una vicenda simile a quella di Gilgamesh capita anche in Grecia, al grande poeta Orfeo. Questa volta ad essere spezzato dalla morte non è l’amicizia virile di due eroi ma l’amore appassionato tra un uomo e una donna. Come è noto non c’era creatura vivente o elemento della natura che non fosse affascinato dalle parole e dalla musica di Orfeo. Egli ama, ricambiato, la bellissima Euridice. La quale però muore, morsa da un serpente mentre corre per sfuggire alle attenzioni di Aristeo. Orfeo, come Gilgamesh, è animato da un amore così grande che ha la forza di scendere nell’Ade. Il fascino della sua musica convince Caronte, ammansisce Cerbero, zittisce i giudici dei morti, tiene lontano le anime dei dannati ma soprattutto – e in modo inaspettato – commuove perfino Ade e Persefone. Piangono le Erinni, si ferma la ruota di Issione, cessano il loro pasto (a spese del fegato del gigante Tizio) gli avvoltoi, scompare il tormento della sete per Tantalo[5]. Orfeo ottiene ciò che desidera: il ritorno in vita di Euridice. Ma c’è un codicillo malvagio nella pietà di Ade: Orfeo dovrà precedere l’amata e non dovrà voltarsi per guardarla sino a che ella non sarà uscita dagli inferi. Esce Orfeo e cammina contando i passi, resiste al desiderio intenso di guardare Euridice. Ecco, è uscito e decide di voltarsi. Euridice però cammina piano, le fa male ancora la caviglia per il morso del serpente. Gli dei degli inferi hanno vinto, neppure Orfeo è riuscito la conquistare la vita per la sua sposa. Dolcemente annota Ovidio che
Ella, morendo per la seconda volta, non si lamentò; e di che cosa avrebbe infatti dovuto lagnarsi se non d’essere troppo amata? Porse al marito l’estremo addio, che Orfeo a stento riuscì ad afferrare, e ripiombò di nuovo nel luogo donde s’era mossa[6].
Orfeo impazzisce dal dolore; Euridice comprende invece che agli umani è stata data solo la breve felicità dell’akmè: essere amati per un momento, e poi il dissolversi per sempre nel nulla.
. Il futuro giudaico-cristiano: la promessa
Il futuro compare invece con un piccolo popolo apparentemente di scarsa importanza: Israele. Nell’Antico Testamento si parla in più punti di ritorno all’esistenza terrena di persone defunte[7]. Con qualche anticipazione in Isaia (Is 25,8) il testo fondamentale è però Daniele 12,2 e soprattutto 2 Maccabei 7. I fedeli uccisi in odio alla loro fede confidano di riavere non semplicemente la vita terrena, ma «una vita nuova, eterna». Nel NT Gesù porta a compimento queste promesse e – in un certo senso – realizza quanto non era riuscito a Gilgamesh e Orfeo. Scende negli inferi (dopo essere “sceso” sulla Terra con l’incarnazione) per amore degli uomini e li porta fuori dal regno della morte, dopo averne scardinate le porte. Le rappresentazioni bizantine di un Gesù che quasi strattona i morti afferrandoli saldamente per il braccio ci fanno comprendere la distanza da Orfeo che tiene esitante la mano di Euridice, con un amore sincero ma inadeguato allo scopo.
Non solo la terra, ma anche i cieli si sono squarciati. È nato il futuro – che forse meglio si chiamerebbe qui avvenire, poiché si tratta di un dono di un Dio che porta nella sua stessa “ragione sociale”, nel suo nome sapore di futuro: «Io sono colui che sarò/ Colui che viene». Un avvenire che è sulla soglia del “già” e del “non ancora”.
In Europa l’avvenire è diventato a poco a poco futuro, secolarizzandosi e affidando di volta in volta a realtà diverse il ruolo di “messia”: la scienza, la rivoluzione, l’economia. A fine Ottocento sino alla Grande Guerra il futuro è la conquista progressiva e inarrestabile del controllo sul mondo e sull’uomo stesso. La politica garantisce il trionfo del ”sol dell’avvenire”[8], Freud assicura il prosciugamento delle forze inconsce fuori controllo: «Dov’era l’Es deve subentrare l’Io. Questa è l’opera della civiltà»[9]. Freud non ha particolare considerazione per l’idea di progresso, eppure il clima è tale che le sue posizioni sono acquisite alla voce “progresso del sapere”. Da noi il poeta ufficiale Carducci compita: «Il mondo è bello, e santo l’avvenir»[10] . Come aveva profetizzato Nietzsche, l’eclisse della trascendenza porta con sé, sia pure con un certo slittamento letterale, anche l’eclisse del futuro. L’ultimo atto del tentativo di pensare al futuro senza trascendenza è forse quello di Camus: «La vera generosità verso il futuro consiste nel donare tutto al presente […]. Il futuro è la sola trascendenza degli uomini senza Dio»[11]. Anche in Italia gli anni Cinquanta conoscono il tema del futuro, non più così sereno come prima delle due guerre, ma ancora possibile:
“L’avvenire non è un probabile dono del cielo, ma è reale, legato al presente come una sbarra di ferro, immersa nel buio, alla sua punta illuminata”[12].
Come è noto il periodo tra la fine degli anni Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso conosce un ritorno al tema del futuro. I rapidi progressi economici, sia pure non omogenei, si accompagnano a un rinnovato interesse per il futuro, la crescita, lo sviluppo. Balbo intercetta questa atmosfera, con il suo stile. Nel 1962 pubblica Idee per una filosofia dello sviluppo umano. Il suo lavoro maggiore, rimasto incompiuto, si intitola proprio essere e progresso. Coglie alcune contraddizioni di queste tensioni verso il progresso, alcune fragilità, alcuni possibili punti di frattura. Anche la Chiesa cattolica è al centro di questa scommessa sul futuro, sull’idea che si possa dare uno sguardo positivo sulla storia e sul suo sviluppo. Lumen Gentium, Gaudium et Spes, Nostra Aetate, Dignitatis Humanae, Inter Mirifica sono solo alcuni dei documenti conciliari che esprimono questa tensione. In Paolo VI si utilizza lo stesso termine “progresso” nella importante enciclica Populorum Progressio (1967). Nella storia della Chiesa il termine “progresso” era inteso soprattutto nel suo significato di “camminare in avanti” (progredire), detto del fedele nel suo rapporto verso Dio[13]. Paolo VI senza rinnegare il significato tradizionale del termine lo amplia al riconoscimento che il cammino dei popoli denominati appunto “in via di sviluppo”. Lo sviluppo viene visto in maniera ampia e positiva: « Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere sviluppo autentico, dev’essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. […] Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione.»[14]. Al n. 87 Paolo giungerà a scrivere che “sviluppo è il nuovo nome della pace”.
La scelta tra futuro-promessa e futuro-minaccia
Se vogliamo capire cosa rende possibile pensare al futuro come promessa forse è bene andare a vedere due momenti chiave del secolo scorso. Il Novecento non è stato un secolo molto tranquillo, specialmente se lo interpretiamo nella versione del “secolo breve” 1914-1989. Eppure ci sono stati almeno due periodi di fiducia nel futuro, due periodi che hanno generato futuro in termini di cultura, di civiltà, di economia. Ma non dappertutto e non allo stesso modo. Vediamoli a ritroso: anni Sessanta e anni Trenta.
Anni Sessanta. Si pensa al futuro come qualcosa di possibile quando ci si accorge che le cose progettate in effetti accadono, tutto sommato anche in tempi brevi. Quando Kennedy nel 1961 promette che gli Usa invieranno un americano sulla Luna facendolo tornare sano e salvo, appare molto temerario. Gli Usa sono in ritardo tecnologico sull’Urss, non hanno ancora fatto neppure un vero volo orbitale. Eppure nel 1969 la promessa viene mantenuta. In otto anni fu imparato tutto: a orbitare attorno alle Terra, ad agganciare due navicelle, a passeggiare nello spazio, a costruire un vettore gigantesco, a circumnavigare la Luna, finalmente a scendere, camminare, ritornare. Otto anni è un tempo brevissimo, tanto che qualcuno non ci ha creduto: troppo in fretta e troppo perfetto per le tecnologie di allora. Eppure una motivazione c’è: furono veramente otto anni straordinari di speranza. Era possibile immaginare un futuro che diventava realtà nel presente che avremmo abitato a breve, non nel futuro remoto. Questo modello non valeva solo per i viaggi spaziali. Se studiavi in un istituto tecnico miglioravi la tua posizione. Se facevi l’università potevi ragionevolmente sperare di migliorare come non mai la situazione sociale ed economica. Anche nell’immaginario della cultura pop gli anni Sessanta passano come quelli dell’ottimismo, dello sviluppo e del futuro.
Anni Trenta. Potrà invece sorprendere qualcuno inserire gli anni Trenta quale secondo esempio di fiducia nel futuro come promessa del Novecento. Quale futuro può essere immaginato in Europa in quel decennio, con i fascismi al potere, con lo stalinismo imperante, con il nazismo che pianifica la conquista del mondo e l’annientamento dei popoli “inferiori”? Forse solo il futuro lugubre del Reich Millenario. Eppure la situazione al di là dell’Atlantico è molto diversa. Gli Usa vivono drammaticamente il disastro della Grande Depressione del 1929, pagando un prezzo sociale altissimo. Europa e America vivono entrambe la crisi, con le angosce e le tensioni che inevitabilmente ogni evento di simili proporzioni porta con sé. Tuttavia c’è una differenza fondamentale nel modo di reagire, Negli Usa gli stimoli emozionali scatenati dal 1929 riescono a generare desiderio di futuro. In Europa invece dominano le paure collettive, il desiderio di un dux, un Führer , un piccolo padre, un caudillo[15] cui affidarsi ciecamente, pronti a scambiare l’autodeterminazione e la libertà con una sicurezza illusoria. Negli Usa il presidente Roosevelt lancia un importante programma di intervento nei settori dei trasporti, dell’agricoltura, delle energia – ma anche della scuola. Diversamente che in Europa negli Usa si afferma un nazionalismo progressista, – contrario al protezionismo – e un ampliamento del ruolo della classe media a svantaggio delle precedenti oligarchie. Scrittori come Steinbeck o Dos Passos celebrano l’idea che il futuro si possa costruire con le scelte personali.
Balbo ha capito che la questione fondamentale è quella della scelta, il che implica un gigantesco sforzo culturale. Negli anni difficili del 1953 e 1954 è stato il promotore dell’esperienza di “Terza Generazione”[16], una rivista nella quale si è affrontato il tema dello sviluppo umano con grande chiarezza. Scrive a questo proposito Sobrero che non esiste solo un «capitale monetario» da investire nell’impresa, ma deve essere «scoperta e utilizzata la ricchezza globale di ogni persona considerata per se stessa mediante l’impiego di quel risparmio occulto che risiede quotidianamente nelle acquisite capacità personali di ognuno a farsi promotore di ricchezza, impiegando bene se stesso prima che la propria eventuale carta moneta»[17].
Nel 2003 due psichiatri pubblicano in Francia un libro destinato ad avere un grande successo (anche in Italia, grazie alla diffusione che ne ha fatto Galimberti): L’epoca delle passioni tristi[18]. Nella “Dichiarazione di intenti” che apre l’opera gli autori sostengono che siamo in presenza di un indubbio aumento di tristezza e di sofferenza psichica. Il futuro, sostengono «cambia segno»[19], non è lo stesso futuro di un tempo – anche solo di cinquanta anni fa. Anche per loro il futuro “non è più quello di una volta”. In più troviamo un’eco secolarizzata della teologia cristiana del tempio: già e non ancora. Scrivono che nel 1963 (ancora una volta viene scelto questo anno!)
tutti pensavano che, prima o poi, saremmo riusciti a guarire malattie gravi come il cancro […]. Ciò che si ignorava riguardo alle malattie era considerato in biologia non ancora conosciuto… In questa sfumature del non ancora risuonava la speranza e la promessa di una realizzazione futura, di un avvicinamento progressivo alla conoscenza. Lo stesso valeva per l’ingiustizia sociale, l’ignoranza eccetera[20].
Che qualcosa a un certo punto abbia cominciato ad andare storto nel rapporto con il tempo (passato/presente/futuro) lo si può capire anche da aspetti minimi della pop cultura. Ad esempio l’incredibile congelamento nella musica di consumo. Nel 1962 un gruppo di ragazzotti californiani mette insieme il gruppo (il “complesso”) dei Beach Boys. Nell’estate del 2012 i Beach Boys pubblicano That’s Why God Made the Radio. Sono tutti nati tra il 1940 e il ’42. Sono ancora qui a cantare come allora. A maggior ragione per i Beatles: dotati di quella immortalità postmoderna e tecnologica che va al di là della morte dei componenti e delle evoluzioni dei superstiti. Questo congelamento del tempo è un dato di fatto e sostanzialmente ci sembra un fatto normale: ascoltiamo le stesse canzoni del 1963, conosciute, amate (e acquistate) anche dalle giovani generazioni. Per uscire un po’ da questa ipnosi può essere utile sottoporci a una analogia un po’ straniante. Nel 2013 si ascoltano le canzoni di 50 anni prima, del 1963. Ma nel 1963 poteva accadere che si ascoltassero le canzoni di 50 anni prima, cioè del 1913? Confesso di non aver fatto studi approfonditi in proposito, ma ho qualche dubbio che nel 1963 si cantassero cose come The Elevator Man Going Up, Going Up, Going Up, Going Up! ( Irving Berlin) oppure Everybody Loves A Chicken ( Bobby Jones). Ma se lo smartphone ( collegato via Usb o meglio bluetooth al sistema audio dell’auto) lancia She Loves You dei Beatles…, beh, lo canteranno anche i ragazzini.
Il futuro non è un algoritmo: rifiutare la hybris
Schmit e Benasayag scrivono a un certo punto che nelle facoltà di medicina del tardo Ottocento circolavano voci sommesse, ma ritenute affidabili, che sarebbe stato possibile vincere la morte. C’è da chiedersi in sostanza se la crisi radicale dell’idea stessa di futuro non sia dipesa da una alterazione idolatra e ideologica della progettabilità e programmabilità del futuro. Se il trasformarsi in minaccia dello svolgersi dei giorni non abbia qualcosa a che fare con la tracotanza che ci ha caratterizzati ogni volta che abbiamo preteso di aver scoperto il motore nascosto che fa andare la giostra. I Greci chiamavano hybris questa tracotanza, un misto di superbia, disprezzo di tutto, disubbidienza, autosufficienza, fiducia cieca nel proprio potere. Ma quando cresce la hybris cresce anche l’infelicità. Gli dei puniscono gli uomini preda della tracotanza, fanno fallire i loro disegni e li gettano in una condizione di infelicità e di prostrazione, nell’isolamento e nella infelicità. Se per i Greci ogni uomo deve affrontare costantemente nella sua vita questa tentazione, sono i Centauri a rappresentare per eccellenza l’accecamento dovuto alla tracotanza. L’eroe greco è tale perché cerca la sua grandezza ma allo stesso è consapevole del limite che inevitabilmente lo circonda[21].
Balbo è molto preciso nell’individuare due fonti di hybris: la filosofia e la tecnocrazia.
La filosofia: il marxismo “scientifico”.Come si è detto più volte, per Balbo la ripresa della tomista filosofia dell’essere non è la semplice riproposizione della filosofia scolastica nel XX secolo, operazione insensata e impossibile. Ha però il ruolo di mettere in discussione un’idea di fondo della modernità: la riduzione della complessità del mondo a una tipologia di cause ben identificate o, al massimo, identificabili nel futuro. Questa riflessione da un punto di vista teorico coinvolge molti autori della modernità, ma da un punto di vista a lui coevo e globale ha un nome: la filosofia di Marx. Non dimentichiamo il clima culturale di quegli anni: caduto il fascismo quasi tutti gli intellettuali formatisi su Croce passano al marxismo. In campo internazionale la contrapposizione tra i due blocchi è fortissima, sia pure con qualche effimera attenuazione. Il sistema sovietico appare ancora come una alternativa credibile all’Occidente. L’Urss anzi è nettamente in vantaggio sugli Usa nel settore spaziale. Balbo ha conosciuto molto bene e dall’interno il mondo degli intellettuali di sinistra tra Torino, Milano e Roma. Ha condiviso per un tratto di strada una sincera passione progressista presente nel gruppo einaudiano. Si pensi alla profonda umanità che si può trovare nell’ultima lettera di Giame Pintor prima di essere ucciso:
Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte […]. Quanto a me ti assicuro che l’idea di andare a fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo; non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore e un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica possibilità aperta e l’accolgo[22].
Balbo dedica proprio a Pintor il suo libro L’uomo senza miti. “Senza miti” è un’espressione da prendere molto sul serio: indica proprio il rifiuto della hybris. Anche di quella della presunta “verità” del pensiero marxista, che ama autodefinirsi “scientifico”[23]. Scrive nel 1948:
Fin quando la ragione scientifica marxista viene intesa come ragione scientifica assoluta, non è solo il profitto capitalistico o il feticcio ideologico ad opporsi alla rivoluzione. Nella esatta misura in cui la ragione scientifica è intesa e applicata come ragione scientifica assoluta è l’essere reale, la religione reale dell’uomo che si oppone nelle forme storiche più varie e attraverso lo stesso profitto e lo stesso feticcio ideologico[24].
La critica di Balbo al marxismo è soprattutto quella di essere una delle incarnazioni (quella predominante all’epoca) della hybris autosufficiente che si contrappone all’atteggiamento filosofico di ricerca. Non avrà timore neppure di usare l’espressione “pudore filosofico” come necessaria consapevolezza della non-risolubilità definitiva dell’umano. Beninteso tale “pudore filosofico” non è la cristallizzazione del già noto, una fuga dal desiderio di conoscenza, Riguarda il metodo, non i contenuti. Anche la religione è soggetta alla hybris: anzi questo è il pericolo maggiore perché ciò che permette all’uomo la salvaguardia della sua umanità possibile è proprio l’appello al trascendente di fronte al pericolo costante di ontologizzare il già dato. Ma se il cristianesimo, trascendente per definizione, è imprigionato in una insufficiente incarnazione storica, dove sarà possibile trovare armi contro il non-Uomo (“la Bestia”, come lo chiama Balbo)? Senza il trascendente non è possibile un altro futuro[25].
La tecnocrazia: “l’esteriorità meccanica e bruta”. Balbo rimane sempre vicino alle problematiche dell’organizzazione del lavoro e del ruolo della tecnologia. Conosce come è organizzata la Fiat, lavora all’Iri quando non era solo un carrozzone di Stato ma portava il Paese sulla scena internazionale, è al corrente dei successi della cibernetica e dell’informatica, anche in Italia[26]. Ne intuisce le potenzialità, è affascinato dalle promesse ma anche spaventato dalle derive antiumane.
Già nel 1945 scrive che accanto al pericolo della reazione c’è quello della «esteriorità meccanica e bruta», che nasce «da un malsano rapporto fra tutte le strutture […]tecniche […] macchine e l’uomo»[27].
Ma è nel 1962 che definisce con chiarezza il criterio per una antropologia aperta al futuro e capace di gestire le novità delle tecno scienze:
La prima e fondamentale implicazione di un approccio metafisico rigoroso nella considerazione dell’uomo balza all’occhio quando si pensi che tale considerazione include il futuro totale dell’essere umano e non solo l’esistente, inteso, questo, nel senso dell’esistenza umana sin qui realizzata […]. Non è più solo il reale che entra nella considerazione intellettiva, ma il possibile, nel senso di ciò che non è ancora reale, ma che sarà reale o potrà realizzarsi o e possibile che si realizzi.[28]
Balbo parla di sviluppo umano molti anni prima del “Benessere Equo e Sostenibile”,[29] molti anni prima del concetto di “Felicità Interna Lorda“ contrapposto a quello di “Prodotto Interno Lordo” e alcuni anni prima dello stesso discorso di Kennedy del 1968:
Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani[30].
È davvero lo Stato il punto focale della trasformazione? In anni carichi di ideologia (e un po’ di ideologia non era mancata neppure a lui stesso in precedenza) Balbo scriveva: «La costruzione o la modifica dello Stato è l’ultimo problema [che dobbiamo] aver davanti […]. Primo problema […] è quello della piena manifestazione e messa in movimento delle reali possibilità umane, intellettuali, morali e tecniche»[31]. Già attorno al 1953 Balbo sperimenta il lavoro in piccoli gruppi sia in ambiente intellettuale che operaio e rurale, con una forte attenzione sociologica.Anche Giorgio Ceriani Sebregondi assieme a Balbo aveva indicato le condizioni dello sviluppo stabile e diffuso. Così un recente studio descrive la sua impostazione, molto affine a quella di Balbo:
Ceriani Sebregondi sosteneva che qualsiasi intervento esterno ha senso e funziona se impatta su una realtà locale che ha individuato la migliore combinazione dei fattori locali. Senza questo sforzo, quanto viene da fuori fatica a innestarsi. Occorre capovolgere l’ordine del giorno. Siamo cresciuti in una cultura che considera la comunità, le relazioni positive, la coesione sociale figlie di un territorio ricco che sta bene. È invece il contrario. La coesione sociale è una premessa e non l’effetto dello sviluppo[32].
Conclusioni. La filosofia come relazione.
Abbiamo detto in apertura che è un gioco mettere accanto dei filosofi uniti soltanto dalla data di nascita. E certamente pur sempre di un gioco si tratta. Ma a volte il gioco apre prospettive nuove e degne di interesse.
Cento anni dopo la nascita e cinquanta dopo la precoce morte allontanano gli equivoci di corto respiro sulla lettura troppo “politica” di Balbo. Ne valorizzano invece aspetti fondamentali e di più ampio respiro (senza rinnegare la vocazione civile del suo pensiero). E così si scoprono alcune evocazioni. Camus scrive: «La vera generosità verso il futuro consiste nel donare tutto al presente» (L’uomo in rivolta). Ma questo non deve significare negare i diritti del presente in nome di un ipotetico futuro. Al suo Uomo senza qualità è forse preferibile il balbiano Uomo senza miti. Il piccolo gioco intellettuale con cui abbiamo iniziato questo contributo svela adesso il suo nucleo: la possibilità di leggere questi autori sotto il tema del riconoscimento della relazionalità del filosofare, della necessità di operare l’ermeneutica del significato per accettare una volta per tutta la modernità senza rinunciare alla felicità del pensare. Il filosofo inglese Paul Grice sostiene l’intenzionalità comunicativa, vale a dire la necessità di comprendere un messaggio a partire dalla intenzione del comunicante. Qualcosa di estremamente importante a salvaguardia di una possibile riduzione algoritmica del linguaggio, una sorta di ripresa della hybris e del mito da cui Balbo non ha mai cessato di mettere in guardia. Grice inoltre è attento al ruolo della intersoggettività, al rapporto parlante-ascoltatore. Il che ci porta anche a Ricoeur e ai grandi temi dell’ermeneutica, della comunicazione, del sospetto verso la hybris razionalista della modernità e dell’apertura verso il linguaggio. Ricoeur parla più volte di «seconda ingenuità» come dell’atteggiamento che conosce il disincanto del mondo sacrale ma non si adegua al cinismo del non-pensiero.
La seconda immediatezza che noi cerchiamo, la seconda ingenuità che attendiamo non è infatti più accessibile se non nell’ermeneutica: possiamo credere solo interpretando. È la modalità “moderna” della credenza nei simboli; espressione dell’affanno in cui si muove la modernità ed espressione del suo rimedio.
Questo è il circolo: l’ermeneutica procede dalla comprensione di ciò che ha il compito di comprendere interpretando. Grazie però al circolo dell’ermeneutica posso ancora oggi comunicare col sacro, esplicitando la precomprensione che anima l’interpretazione. Così l’ermeneutica, conquista della “modernità”, è uno dei modi attraverso i quali la “modernità” si supera in quanto oblio del sacro. Io credo che l’essere può ancora parlarmi, non più certo nella forma precritica della credenza immediata, ma come la seconda immediatezza a cui mira l’ermeneutica. Questa seconda ingenuità vuol essere l’equivalente post-critico della ierofania precritica[33].
Una «seconda ingenuità» che in Balbo è scelta di vita. Anche le testimonianze sulla sua vita quotidiana ci raccontano un uomo capace di ascoltare anche chi veniva in partenza bollato dagli altri come uno dal quale non può venir fuori nulla di buono. Narra dolcissima la Ginzburg:
Pavese diceva: – Che bisogno c’è di proposte? Siamo pieni di proposte fino al collo! Me ne infischio delle proposte! Non voglio idee!
– Giralo allora a Balbo, – diceva la voce.
Balbo, lui, dava retta a tutti. Non rifiutava mai un nuovo incontro. Balbo non aveva difese contro le proposte e le idee. Tutte le proposte e tutte le idee gli piacevano, lo sollecitavano, lo mettevano in fermento, e veniva a esporle a Pavese. Veniva là, piccolo, col suo naso rosso, serio come diveniva serio quando aveva una proposta da esporre, quando credeva d’aver messo gli occhi su di un caso umano nuovo, stupito come sempre si stupiva dinanzi a ogni nuova forma umana che si delineava sul suo orizzonte, sempre disposto a cogliere l’intelligenza ovunque, a vederla pullulare in ogni angolo dove s’eran posati i suoi piccoli occhi celesti, acuti e ingenui, sprovveduti e profondi. […].
Pavese diceva: -Mi sembra una proposta cretina! Difenditi dai cretini!
E Balbo rispondeva che, sì, era infatti in parte una proposta cretina, ma era però anche insieme non tanto cretina, e aveva un nocciolo buono, vitale, fecondo.[34]
[1] La citazione “Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta” è spesso attribuita a Paul Valéry, Regards sur le monde actuel , 1931. A dire la verità nell’originale francese è un po’ diversa; “L’avenir est comme le reste : il n’est plus ce qu’il était” (Valéry (Notre destin et les lettres, Regards sur le monde actuel, pag. 1062, Oeuvres II, Pléiade, Gallimard). Il testo riporta acute riflessioni sulle mutazioni di lungo periodo, sul ruolo dell’innovazione tecnologica, sull’Europa, sulla globalizzazione e sull’ascesa potenziale della Cina. Valéry sostiene che nel XX secolo neppure Mefistofele potrebbe predire il futuro. Non possiamo più pensare ad esso con la fiducia nei nostri sistemi tradizionali di controllo. Nel presente contributo utilizzo la frase nella versione di Ivan Tresoldi per evidenziare il passaggio dal futuro-promessa al futuro-minaccia ( e magari al futuro-condanna). Valéry opera un raffinato passaggio intermedio: la perdita di controllo sulle modalità di evolvere della storia genera la transizione da un futuro progettabile a un futuro imprevedibile e quindi minaccioso.
[2] La Provincia di Milano nel 2009 ha affidato a Ivan Tresoldi l’esposizione “Poesia viva” nella quale la frase sul futuro era diventata una installazione. Cfr. http://www.poesiaviva.it/pv/
[3] Tavoletta di Berlino e Londra 60-75.
[4] Redatta nel II secolo d.C la cronaca si occupava del periodo dal1184 a.C. (a quell’anno Apollodoro faceva risalire la guerra di Troia) al144 a.C. (la Grecia passa alla provincia romana di Macedonia). L’opera non ci è pervenuta ma era assai diffusa; ne ha tratto molte notizie anche Diogene Laerzio.
[5] Cfr. Ovidio, Metamorfosi (X, 41-63).
[6] Ovidio, Metamorfosi (X, 61-63).
[7] Ad es. il ritorno alla vita di bambini e di adulti defunti in 1Re 17,17-24. Oppure il ritorno alla vita delle ossa inaridite contemplate dal profeta Ezechiele (Ez 37,3) o Amos 5,2 e Osea 6,1.
[8] Ancora nel 1945 Mao poteva scrivere: “Il mondo progredisce, l’avvenire è radioso, nessuno può cambiare questo orientamento generale della storia” (Sui negoziati di Chiung-King).
[9] Sigmund Freud, Nuova serie di lezioni, in Opere, Boringhieri 1967-1993, vol. XI, Lezione 31, p. 190.
[10] Giosuè Carducci, Il canto dell’amore, in Giambi ed Epodi, 1882.
[11] Albert Camus, L’uomo in rivolta, 1951. Camus è un coetaneo di Balbo: anche lui è nato nel 1913.
[12] Vitaliano Brancati, Paolo il caldo. Il romanzo esce nel 1955, un anno dopo la morte del suo autore.
[13] Ad es. Bonaventura da Bagnoregio parla di questo progresso mistico nell’ Itinerarium mentis in Deum. Pensato da Bonaventura nel 1259 sul monte della Verna, è una sorta di ascesa verso Dio raccontata in sei capitoli: ascesa che culmina nella auto rivelazione di Dio nel capitolo settimo.
[14] Populorun Progressio, 14-15.
[15] Tutti termini come evidente che si rifanno a “capo”, “guida”.
[16] La rivista è edita da Ettore Sobrero, che proprio grazie a Balbo entra in contatto con molti intellettuali. La rivista pubblica interventi di Gino Giugni, Leopoldo Elia, Gianni Baget (poi anche Bozzo), Natalia Ginzburg.
[17] Ettore Sobrero, Incontri reali e anche meno, Robin Edizioni, con Introduzione di Bruno Gambarotta, p. 33.
[18] M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004, più volte rieditato.
[19] M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2005, p. 18
[20] M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 18-19.
[21] Si veda ad es, il mito di Bellerofonte, che vuol rubare a Zeus i segreti del cosmo. Ma vale anche per tantissime altre situazioni: Icaro, Fetonte, i Proci, Serse, Aiace. Ad Olimpia il frontone del tempio è dominato da un Apollo vittorioso sulla hybris del Centauri.
[22] G. Pintor, Il sangue d’Europa, Einaudi 1966, pp. 187ss.
[23] Politicamente Balbo nel 1946 è tra quanti votano a favore dello scioglimento del Partito della Sinistra Cristiana e, con intellettuali come Sebregondi, Motta, Barca, Tatò, Rodano) aderisce al Pci. Non partecipa più alla vita del partito tra il 1947 e il 1948. Nel 1950 non rinnova la tessera.
[24] Religione e ideologia religiosa, p. 239.
[25] Su questa tematica si veda anche il recentissimo lavoro di Slavoj Zizek e John Milbank San Paolo Reloaded. Sul futuro del cristianesimo (Transeuropa, 2013). Scrive Zizek, che non è credente: «Qui sta il messaggio del cristianesimo: la positività dell’Essere, l’ordine del cosmo regolato dalle proprio leggi, che è il dominio della finitudine e della mortalità, non è “tutto ciò che c’è”; c’è un’altra dimensione, la dimensione della vita vera dell’amore, accessibile a tutti noi attraverso la grazia divina, cosicché tutti possiamo parteciparvi». Il cristianesimo stabilisce «che io non sono soltanto ciò che sono, uomo donna, e così via; anzi, cioè che mi rende grande, o addirittura immortale, è il fatto che io non possa essere ridotto a ciò che sono nella mia esistenza particolare».
[26] Un dato poco conosciuto è la sua collaborazione tra il 1945 e il 1947 alla casa editrice Orma, caratterizzata da libri di ottima qualità. Lavora presso Orma anche Ettore Sottsass, architetto e marito di Fernanda Pivano. Il nome di Sottass è legato anche all’informatica grazie al suo design rivoluzionario del calcolatore elettronico Elea 9003 prodotto dalla Olivetti a partire dal 1957. Il calcolatore elettronico, nato in Gran Bretagna negli anni della guerra, era pensato come un struttura gigantesca e programmabile solo via hardware (spinotti, connessioni fisiche, ecc.): Sottsass cambia completamente impostazione, disegna una serie di moduli di piccole dimensioni e inizia l’era della progettazione “user friendly”, con una interfaccia intuitiva e amichevole. Al design innovativo Olivetti accompagna una potenza di calcolo strabiliante per l’epoca e – prima al mondo – realizza un computer multitasking totalmente a transistor e non più a valvole. La versione del 1959 è rimasta per anni la più perfomante al mondo. In quegli anni l’Italia è in grado di puntare sul futuro, e c’è da chiedersi come sia stato possibile dilapidare un momento così felice della ricerca e dell’industria (fisica, chimica, cibernetica) più avanzate. Sottsass firma ancora nel 1984 il design del fortunatissimo M24 di Olivetti. Segnalo infine, come omaggio alla rivista che ospita l’articolo (edita dall’Issr di Arezzo) che un prezioso Elea 9003 (ne furono costruiti appena 40) si trova ancora funzionante presso l’Itis “Fermi” di Bibbiena (Arezzo): onore al merito di chi in Italia si prende cura della memoria: http://www.elea9003.it/. Balbo parla di cibernetica anche nelle Lettere a Ludovica, Archinto 2008.
[27] L’altro pericolo “Il Politecnico” 39 (1945). L’incomprensione ricevuta da importanti intellettuali contemporanei testimonia la precocità, almeno in Italia, con cui Balbo aveva individuato il problema della tecnocrazia.
[28] Opere, p. 442.
[30] Robert Kennedy, discorso del 18 marzo 1968 all’Università del Kansas.
[31] Il piccolo gruppo di lavoro e la sua funzione nella grande organizzazione, in “Termine e concetto di Costume”, Atti del 2° Convegno-laboratorio organizzato dal Centro Internazionale delle Arti e del costume in Venezia 27-29 settembre 1956 (Brescia 1957), ripubblicato con alcune varanti in “Rivista di Organizzazione Aziendale” 4 (1958).
[32] Intervista di Giovanni Ruggiero a Carlo Borgomeo, Mezzogiorno: troppi errori in Cassa, “Avvenire” 18.6.2013, p. 22. Borgomeo è autore dello studio L’equivoco del Sud, Laterza 2013.
[33] Paul Ricoeur, Finitudine e colpa, Il Mulino 1970, p. 628.
[34] Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi 1963, p. 158.
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