Pensiero e linguaggio

di Anselmo Grotti
Il linguaggio non è soltanto la descrizione del mondo, ma anche il medium per la sua percezione e per la sua strutturazione. I tentativi di forzare il cambiamento antropologico per via linguistica sono spesso discutibili e contraddittori. È una vecchia – e molto importante – storia. Si sono avuti eccellenti esempi di miglioramenti dell’organizzazione sociale grazie a riforme del linguaggio. La Rivoluzione Francese ha avuto uno straordinario successo nel progettare termini metrici per le unità di misura: il chilo, il litro, il metro… Gli antichi privilegi feudali e il potere dei signorotti sono stati spezzati anche perché si è tolto loro il monopolio della misura, si è creata una sorta di “internet” dei pesi, dei volumi, delle distanze. Ma quando si è voluto “razionalizzare” non più lo spazio ma il tempo la cosa non ha funzionato. La decade al posto della settimana, i nomi dei mesi e dei giorni slegati da ogni riferimento storico ed elencati da una razionalità scintillante e astratta non hanno avuto successo. Neppure quando ci hanno provato in Unione Sovietica negli anni ’20 e ’30 del Novecento. Lo spazio appartiene al mondo esterno, ma il tempo ci costituisce in profondità come persone. E qui il linguaggio deve fare i conti con le nostre strutture più intime.
Il linguaggio non è uno strumento passivo di trasmissione di dati oggettivi. È un ambiente nel quale costruiamo significati. Lo vediamo anche in ambito apparentemente molto lontani da questioni di valore, come ad esempio la matematica.
I papiri egizi del Medio Regno (4.000-3.700 a.C.) raccontano di come l’occhio del dio-falco Horus nella lotta con il dio Seth si spezzasse in sei, ciascuno la metà dell’altro. Fu il dio Toth a ricomporne la sequenza, ristabilendo l’unità originaria dell’occhio. Per Pitagora il rapporto di ½ corrisponde all’intervallo di ottava; 2/3 all’intervallo di quinta; ¾ all’intervallo di quarta. I Romani dividevano la vita in climateri di 7 anni, in ciascuno di questi climateri il settimo anno era a rischio (è rimasto nel modo di dire: “la crisi del settimo anno”).
Attraverso poche parole-base (i numerali 1-19; le decine 20-90, i numerali 100, mille, milione, miliardo) abbiamo una quantità illimitata di espressioni numeriche. Come nel linguaggio verbale, con un numero finito di elementi e un numero finito di regole possiamo ottenere un numero infinito di combinazioni, grazie al principio della ricorsività.
Ma esistono anche sistemi non ricorsivi: ad esempio gli aborigeni australiani, i papua della Nuova Guinea, i pigmei sudafricani, gli amerindi del Sud. Alcune popolazioni della Nuova Guinea contano dal dito mignolo della mano destra passando per il braccio destro, il volto, il braccio sinistro, la mano sinistra e il mignolo arrivando a 22 come sistema base.
Alcuni gruppi dell’ Amazzonia hanno sistemi 1,2,3,4-molti, ma anche 1,2-molti e perfino 1-molti
Lingue che non hanno numerali, non indicano il plurale dei sostantivi, hanno termini per le piccole quantità (ma non per oggetti singoli). Tutto questo ha forti conseguenze sulla loro concezione del mondo, e rappresenta una conferma dell’ipotesi dei linguisti Sapir e Whorf: le parole che utilizziamo e il modo che abbiamo di combinarle influenzano il modo che abbiamo di vedere il mondo e di organizzare la nostra mente.
L’egizio è la prima lingua a possedere il termine per “milione”: un genio con le braccia aperte rivolte verso il cielo. Il che ha portato enormi conseguenze sulla loro capacità di organizzare i paradigmi mentali ma anche la società e la politica.
La sciatteria che spesso si nota nel linguaggio della politica, l’ideologia rampante, la manipolazione pubblicitaria del marketing non sono soltanto fattori linguistici. Dicono molto su come parliamo, ma dicono molto più su come viviamo.
Articolo intenso come sempre : lo sottoporrò al mio docente di Tecnologie dell’Istruzione…