La cultura come bene comune da condivedere

Riporto un interessante articolo di Ulla Gudmundson, a partire da due interventi: uno di un economista, l’altro di un filosofo.
La cultura, la scuola, la conoscenza fanno parte di quei “beni comuni” immateriali che possiamo e dobbiamo condividere per incrementare il benessere autentico. E comprendere che la strada di considerare tutto come avente un prezzo non ci porta da nessuna parte
A.G.
Perché l’economista francese Thomas Piketty ha creato tanto trambusto nell’ambito del dibattito globale? Essenzialmente perché sfida la premessa fondamentale della filosofia del mercato globale secondo cui, se ci viene impartita un’educazione, lavoriamo sodo e ci comportiamo bene, riceveremo una parte consona della crescita generata da un’economia del libero mercato.
Se Piketty ha ragione — se, di fatto, l’ulteriore arricchimento di chi è già ricco sta diventando un pianoforte che si suona da solo, se un sistema che di principio è meritocratico torna indietro a uno in cui è il denaro ereditato e non la capacità a decidere come sarà la propria vita — allora il clamore non sorprende. Specialmente se questa tesi viene presentata nella scia di una crisi globale che ha modificato in modo radicale la vita di centinaia di migliaia di persone.
Una delle ragioni dell’impatto avuto da Piketty è che egli appartiene al prestigioso club di economisti professionisti, da oltre due decenni consiglieri per eccellenza dei leader politici, almeno in occidente. Il suo libro Capital in the 21st Century si basa su molti anni di ricerca e lunghe serie temporali. I dati presentati da Piketty sono sostenuti da altri studi, i quali indicano che la spaccatura tra gli immensamente ricchi e tutti gli altri è cresciuta enormemente negli ultimi tre decenni.
La cosa particolarmente sconvolgente è che l’un percento più ricco sembra aver incrementato le proprie ricchezze tra il 2007 e il 2011, vale a dire negli anni in cui forzieri pubblici sono stati svuotati per salvare banche private. Dal punto di vista politico, l’incremento delle sostanze dei ricchi di solito non è un problema fintanto che c’è crescita e aumenta la ricchezza di tutti in termini assoluti.
Ci sono ancora molti poveri nel mondo. Di solito s’invoca la crescita economica come mezzo per migliorare la loro sorte. Ma che cosa accade se i molto ricchi assorbono la maggior parte — o tutta — di questa crescita? E che cosa accade se la tendenza attuale comporta il rischio che larghe fette del ceto medio sprofondino gradualmente in un precariato incerto e vulnerabile? Se un livellamento moralmente auspicabile tra nazioni ricche e povere è accompagnato tra crescenti disuguaglianze all’interno delle stesse? Sotto il dibattito sul libro di Piketty ne cova uno più profondo, etico e politico: che tipo di società vogliamo? E per chi?
Sono domande affrontate dal filosofo francese François Flahault nel libro Où est passé le bien commun? (Mille et une nuits, 2011). Tradotto in parole semplici significa: che fine ha fatto il bene comune? Espressioni materiali del bene comune sono, per Flahault, l’aria, l’acqua, la biodiversità, le strade e gli spazi pubblici, l’illuminazione stradale, e così via. Le espressioni immateriali sono, per esempio, la convivialità, la musica, le ricette di cucina, la lingua, gli argomenti di conversazione e la fiducia sociale. Sottolinea che si tratta di beni il cui valore per noi non diminuisce se li condividiamo con gli altri. Respirare la stessa aria o parlare la stessa lingua del nostro vicino, dare consigli a un amico o indicazioni stradali a uno straniero non ci priva di nulla.
Ma — scrive Flahault — in una società di mercato liberale, «i beni comuni fanno sempre tappezzeria al grande ballo dei consumatori». Siamo giunti a ritenere che ogni cosa debba avere un prezzo per poter essere oggetto di una presa di decisioni razionale.
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