Il virtuale è sempre più reale

Anselmo Grotti

Il virtuale è sempre stato reale. Dalle pareti dipinte della Grotta di Chauvet (37.000 anni fa) alle rappresentazioni digitali del mondo gli esseri umani hanno sempre inteso il virtuale come intrinsecamente legato alla realtà. Non solo come sua rappresentazione, ma anche come sua modifica, come espressione della propria interiorità, come ricerca e produzione di significato: in una parola come ominizzazione del mondo e di se stessi. Tuttavia oggi questa realtà assume un diverso significato, ed è uno degli aspetti della grande trasformazione antropologica che stiamo vivendo e che vedremo ancor meglio nei prossimi anni.

Sinora reale e virtuale hanno sempre viaggiato su piani separati. Abbiamo guardato il paesaggio e il dipinto del paesaggio. Letto la guida turistica e ammirato l’opera d’arte. Visto il film dopo (o prima, non fa differenza) la recensione. Detto in estrema sintesi: dalle grotte di 37.000 anni fa ad  oggi, abbiamo sempre guardato alternativamente la strada al di là del parabrezza o lo schermo del navigatore sul cruscotto. Già qui si capisce quanto sia erroneo attribuire al virtuale un aspetto negativo. La rappresentazione della realtà fisica nella mappa del navigatore è certamente astratta e convenzionale, ma non per questo non è realtà. Ma questo in realtà lo si è sempre saputo: che si tratti della mappa babilonese di Sippar (2.500 anni fa), delle carte di Mercatore o del file di un computer, si è sempre capito che la rappresentazione virtuale del mondo è un modo per comprendere il mondo (in realtà le rappresentazioni dicono moltissimo non solo su quanto viene rappresentato, ma anche su chi rappresenta. Questo è un aspetto che è rimasto un poco più in ombra). Già Platone esortava a non pensare che il racconto mitico si identificasse con la realtà, ma ancor più ad evitarne la banale liquidazione come “favoletta”.

Dov’è allora la novità? Semplicemente in questo: sta finendo l’epoca nella quale alterniamo lo sguardo tra monitor e parabrezza. Sta arrivando un’epoca nella quale i dati del monitor, la sua rappresentazione “virtuale” del percorso si sovrapporrà all’immagine stessa della strada. L’epoca della realtà “potenziata” o “aumentata”. È un passaggio antropologico importante. Non è l’unico della nostra storia culturale, ma non è neppure un dato secondario e trascurabile.

Come ogni tecnologia della comunicazione – ma in modo ancor più pervasivo – il digitale rivela, esasperandole, tensioni dialettiche e problematiche molto antecedenti al mondo attuale. Attorno ad esso si coagulano due posizione simmetricamente contrapposte: la diffidenza verso la tecnologia e la sua adozione a paradigma fondamentale. Da un lato l’illusione di una natura senza tecnica, dall’altro quella di una tecnica che sostituisce la natura. Per molti versi la rivoluzione digitale è l’ultimo frutto della grande tradizione occidentale che ha progressivamente costruito linguaggi sempre più formalizzati, univoci, di tipo algoritmico, analitici.. Alla fine di questo percorso ci potrebbe certo essere l’idea che la mappa è il territorio. Allo stesso tempo però non va trascurato il fatto che nella Rete è presente anche un aspetto apparentemente opposto. Nella Rete infatti i confini si sciolgono, le argomentazioni lineari si scompongono, il primato della comunicazione matematico-verbale deve fare i conti con il ruolo fortissimo della comunicazione iconica, visiva, multimediale.

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