La responsabilità sociale al tempo di Internet

Anselmo Grotti
Siamo davanti a un rischio di non di poco conto. Da un lato infatti sembra prospettarsi una Rete capace di connettere ed elaborare i “big data”. Una profilatura così completa di gusti, opinioni, azioni, contatti, spostamenti, acquisti, ecc. da trasformarci in flussi di dati perfettamente visibili, scomponibili, prevedibili e alla fine manipolabili. Una antropologia digitalizzata proprio nel senso letterale di “numerica”, numerabile e numerata, ben determinata. Dall’altro un oceano di stimoli, di sensazioni, di emozioni, un ondeggiamento di comportamenti, una “hola” da stadio in cui immergersi. Un eterno titillare a bassa intensità. Una antropologia liquida. Due mondi decisamente ben suddivisi: alle èlites tecnocratiche la gestione dei Big Data, alle folle lo stato di lieve ebbrezza tecnologica.
Il tema dell’educazione al tempo di Internet è più che mai vivo, purché si comprenda che lo è ad almeno due condizioni. La prima è quella di educarci al valore ecologico della cultura. La cultura è un ambiente, anzi è la umanizzazione del nostro unico ambiente. Questo non è una novità, solo che adesso abbiamo l’opportunità di comprenderlo meglio, grazie ai mutamenti che viviamo e soprattutto grazie alla rapidità di questi mutamenti. In quello che gli studiosi chiamano “passaggio alla seconda oralità” possiamo comprendere meglio anche cosa ha significato la “cornice mentale” (brainframe) alfabetica. Abbiamo sempre costruito realtà virtuali: mappe della terra, ma anche del cielo; mappe fisiche ma anche mappe del sapere e del significato. Non a caso il disegno delle costellazioni celesti ha sempre avuto un aspetto fisico e un significato mitologico (e quindi antropologico).
La seconda condizione è quella di saper gestire contemporaneamente gli aspetti analitici e globali, matematici ed iconici degli ambienti digitali. Nella consapevolezza che per la prima volta il loro intreccio con la realtà fisicamente percepita non viene “dopo” l’esperienza, ma insieme.
Ne derivano due compiti. Il primo è prendersi cura di luoghi dove poter svolgere una adeguata riflessione culturale. Dobbiamo studiare in profondità gli aspetti cui abbiamo accennato, stimolare il confronto tra istituti di ricerca e di formazione, associazioni e scuole; incoraggiare le relazioni tra studiosi, formatori, educatori, famiglie. Non bastano il buon senso, la pia esortazione, il timore o l’entusiasmo.
Il secondo è prendersi cura di incoraggiare una pragmatica che sperimenti ambienti digitali dove questo intreccio si realizzi. Questo può accadere sia in ambienti professionali che quotidiani. In quelli professionali ad esempio si potranno utilizzare i Big Data e in genere la realtà aumentata per utilizzare meglio le risorse, salvaguardare l’ambiente naturale e mettere a disposizione di tutti cibo, acqua pulita, case adeguate, servizi sanitari e formativi, l’accesso alle decisioni e il contributo all’innovazione. In un mondo di risorse finite, non abbiamo alternativa tra il mantenimento del privilegio tramite la guerra o l’utilizzo dei beni mediato dall’unico bene che si moltiplica condividendolo, quello delle idee, della cultura, del digitale.
Anche negli ambienti quotidiani questo intreccio può realizzarsi: la formazione ad esempio può svilupparsi enormemente in ambienti di realtà potenziata e di costruzione partecipata della conoscenza. Non è mai successo nella storia che si potesse accedere così facilmente al sapere e allo scambio di idee. Naturalmente non si tratta di un fatto automatico, non c’è una linea predefinita e obbligata, una “salvezza” acclusa dentro la rivoluzione digitale – contrariamente a quanto alcuni evangelist della tecnologia pensano. C’è bisogno di dedicare del tempo, di scelte, di persone disposte a studiare e sperimentare.
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