Il linguaggio e la realtà

Anselmo Grotti

La realtà viene descritta con  le parole, ma anche il linguaggio fabbrica la realtà. La letteratura non è solo un “medium”, una interfaccia tra la mente e le cose o tra le menti degli esseri umani. È anche un potente laboratorio di comprensione di come si fabbricano il nostro linguaggio, le nostre idee buone e i nostri cattivi fantasmi.

Vasilij Grossmann in Vita e Destino ha descritto con mano felice le oscillazioni del linguaggio. Prendiamo l’antisemitismo russo. Nota lo scrittore che “Quando c’era lo zar gli antisemiti erano i patrioti di destra. Adesso gli antisemiti si umiliano ai tedeschi e sono pronti al tradimento per trenta denari nazisti”.  L’antisemitismo pretendeva di giustificare se stesso descrivendosi come il patriottismo di chi si oppone all’ebreo – visto come irrimediabilmente “straniero”. Gli stessi antisemiti russi che poi non esitano ad andar d’accordo con gli invasori tedeschi .  E si tratta spesso di persone miti e insospettabili: “È assurdo! È laureata, e il suo povero marito era un’ottima persona, un uomo mite, faceva il contabile in banca”. L’artificio linguistico giustifica persecuzione e saccheggio: “Dalla periferia vengono a rubare in città”. Il linguaggio deve trovare nuove espressioni: “È nata l’espressione: scasare le cose, perché dal vicino sono più sicure”.

Le parole rendono possibile le convivenza, ma la convivenza non è sempre della stessa qualità, come non lo sono le parole. Ivo Andric, Il ponte sulla Drina: “Di giorno turchi e serbi si salutavano con quel centinaio di parole convenzionali della cortesia del mercato che passano dall’uno all’altro come moneta falsa la quale tuttavia rende possibile e facilita i traffici”. All’inizio del secolo XIX scoppia in Serbia la rivolta. Visegrad era al confine tra Bosnia e Serbia. “I serbi pregarono Dio perché la fiamma di salvezza [la rivolta] si estendesse.. i turchi pregarono Dio di fermarla”. Il sospetto blocca la comprensione delle parole, e le parole non comprese diventano incapaci di fermare la violenza. “Jelisij era un nonnino originale, sempre in preghiera. Prima le autorità turche non vi facevano caso, giudicandolo uno scemo e un uomo di Dio. Ma ora la rivolta aveva insospettito. Fu il primo a passare dalla ridotta. Portava con sé un grosso bastone con strani segni e lettere. Interrogato, l’interprete cercava espressioni turche per i concetti astratti, ma aveva un lessico povero. Il comandante in qualche punto della coscienza percepiva di avere davanti un derviscio infedele mattoide, scemo bonaccione e innocuo. Ma nella traduzione di Sefko le parole del vecchio sembravano sospette. Il comandante lo avrebbe liberato, ma c’erano altri soldati, il suo sergente, i turchi della città, i volontari che scrutavano foschi. Venne giustiziato!”. Non molto difforme da quello che succede a Pilato con Gesù. Capitò anche un ventenne serbo povero, Nile. L’ardore della gioventù l’aveva spinto a cantare e cantava quello che aveva sentito cantare da altri. Canzoni intrecciate perché “gli avversari s’erano strappati gli uni agli altri non solo le donne, i cavalli e le armi, ma anche le canzoni” (quasi una rivisitazione di Ariosto…). Parole cantate senza pensarci, senza comprendere che si trattava di una canzone “dei nemici”, e quindi capace di far divenire “nemico” chiunque la cantava. Il giovane non comprende. Fu chiamato il boia. La sua  testa mozza ornò il ponte, dove scomparvero le riunioni, i canti e la gioia.

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