L’eroe leopardiano e la sfida della coerenza

Avrebbe detto Orazio che la poesia che lascia un segno di sé nella storia è come un monumento. Giacomo Leopardi non solo è riuscito a plasmare un’opera di statuaria bellezza, ma le ha fornito poderose fondamenta filosofico-ideologiche rendendola solida e, forse, davvero più duratura del bronzo. Insomma il poeta recanatese è l’esempio perfetto di sintesi intellettuale, è l’esempio perfetto di chi aspira a realizzare sé stesso, può sembrare una follia, ma Leopardi mirava a raggiungere questo: non la sua gioia, ma il “suo” vero.
Già nel 1821, tramite lo Zibaldone, fissava la sua idea riguardo la necessaria compenetrazione di filosofia e poesia. Il buon filosofo è anche poeta, il buon poeta è anche filosofo, infatti, chiunque aspiri a comporre dei buoni versi, chiunque aspiri al vero deve usare la ragione (essere pensatore), deve affidarsi all’immaginazione (essere filosofo) e basarsi sul sentimento (essere poeta). La ragione è freddissima, è nuda (i due termini hanno una leopardiana intercambiabilità) se non sostenuta da queste altre doti che conducono anche all’eroismo. Come appare nel dialogo tra Plotino e Porfirio quest’ “eroismo” è quello di chi guarda la realtà in faccia, di chi non si autodistrugge, ma accetta di portare la propria dose di male (pesante fu quella toccata al poeta) pur di non consegnarsi alla natura da solo. È l’“eroismo” di chi attende il momento della propria fine con dignità e con la voglia di aiutare il prossimo. Concetto ancora in fase embrionale nello Zibaldone, ma pienamente sviluppato nella Ginestra.
Ma perché a Leopardi toccò un “fascio” così pesante? La ragione del male del poeta va ricercata proprio nella sua coerenza. Come afferma A. Prete, Leopardi è incarnazione della crisi di chi conosce la verità e riesce a tradurla in produzione scritta, di chi “sa trasformare l’erudizione in fantasia”. Leopardi è veramente “pensiero poetante”, ma quando l’erudizione ha ormai ferito il pensiero convincendolo del male del mondo e della bruttezza del vero (“tutto il vero è brutto”, come si legge nello Zibaldone), a quel punto, anche la poesia non può più essere consolazione (ecco perché la fase del 1820 è così breve), ma diventa proseguimento dell’esperienza dolorosa, elaborazione di un lutto che non si dimenticherà mai.
Anche Binni si rende conto del fatto che la “limpidezza poetica” è frutto di una “dialettica vitale”, di un “eccezionale tormento di pensiero e di cultura”. Ed è sempre Binni a fissare lo straordinario concetto di “eroismo” come coerenza con sé stessi, come dote di chi, pur sapendo che le sue verità sono pesanti e dolorose, sa che deve portarle avanti, sostenerle, proprio come fa il povero ammalato che, presa coscienza della sua terribile e fragile condizione, va in giro mostrandosi così com’è.
Dunque la coerenza leopardiana spiega tutto e si spiega con tutto, pochissimi sono i testi che non si accordano con essa. Ogni poesia, ogni verso, ogni figura retorica ha per Leopardi oltre alla funzione artistica, una funzione ideologica: se esibire le doti tecniche è fondamentale (per una persona inevitabilmente interessata alla gloria poetica) è forse ancor più importante far trasparire tra quegli stessi versi un urlo disperato che è sia richiesta d’aiuto che tremenda denuncia. Così l’“Islandese” attacca la natura e la smaschera definitivamente, il “pastore errante” la ricopre di interrogativi con un’accumulazione che indica sia la rabbia, sia la disperata (ma mai priva di basi oggettive) ricerca di una via di fuga. Così “A sé stesso” rinuncia definitivamente a tutte le illusioni che, per quanto possano alleviare il male, sono esattamente la menzogna che l’uomo si racconta da solo e , appunto, la caduta della nostra più nobile forma di eroismo. Così il “Sabato del villaggio” e “La quiete dopo la tempesta” sono costretti a far crollare la gioia, il primo canto rivelando che si tratta solo di un’ illusoria attesa futura (inevitabilmente delusa in un tempo che per il poeta è ormai diventato presente), il secondo stabilendo che, oltre alla morte, la natura ci concede un’unica gioia: l’attimo di sospiro tra due momenti dolorosi. Così “Il passero solitario” ci parla di un eroe individuale che, a differenza degli inconsapevoli, non ha nulla da festeggiare, né potrà mai gioire sapendo di essersi messo contro la natura (cosa che il passero non può fare), anzi, proprio per questo si dovrà pentire. E ancora il “Canto notturno” dopo aver mostrato un attimo di debolezza, un attimo di invidia per chi non soffre per onnipotenza (la luna) o per inconsapevolezza (il gregge) torna con maggior potenza ad attaccare la vita maligna, la vita che ci ha invitato per farci soffrire. E poi la “Ginestra”: più elevato momento riflessivo che loda chi, come “il fiore del deserto”, ha capito di non essere nulla e porta eroicamente avanti questa concezione, chi, invitato ad una festa del dolore, quasi volesse schernire la natura, non solo non le mostra un umile inchino, ma, come per sfida le rimane avvinghiato, la abbraccia fino a che questa non erutterà su di lui.
Gianmarco Scortecci 5°B
Prof.ssa Patrizia Borghesi
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