Comunicare è un atto umano

Anselmo Grotti
E’ un paradosso: un mondo che diviene sempre più “villaggio globale”, un’economia che tende sempre più a internazionalizzarsi, nuove generazioni che viaggiano con più facilità e a maggior distanza rispetto a quelle che le hanno precedute, tecnologie che ogni giorno ci sorprendono, possono non bastare. Occorre che la comunicazione avvenga valorizzando le peculiarità del diverso, non omogeneizzando tutti nella stessa cultura e neppure predicando la totale incompatibilità e insularità di culture e persone. Mille schermi televisivi si agitano in un perpetuo sfarfallio variopinto, mille parole compaiono sui monitor, escono dagli altoparlanti, ci inseguono nelle case, negli autobus, negli ascensori contendendosi la nostra attenzione. Eppure, come il respiro, la relazione è fatta di momenti che alternano parola e silenzio, vicinanza e distacco, apertura all’altro e raccoglimento in sé.
Abbiamo bisogno di un tempo della riflessione, della consapevolezza, per poter realizzare con maggiore profondità le grandi potenzialità che il nostro tempo ci offre.
Esistono delle parole che in determinati periodi assumono una tale importanza e diffusione da far ritenere legittimo il loro uso – e spesso il loro abuso – in qualsiasi contesto, esonerandoci dalla necessità di riflettere sul loro significato. Tra queste parole va certamente collocata la magica espressione “comunicazione” che compare sistematicamente in luoghi molteplici: la pubblicità, la politica, l’economia, la psicologia, la formazione…, fino ai discorsi quotidiani dei rapporti interpersonali, di amicizia e di lavoro. Certamente assistiamo a una crescita a dismisura degli strumenti della comunicazione: il linguaggio, la scrittura, la stampa, il cinema, la radio, la tv, le nuove tecnologie rappresentano un crescendo sempre più rapido di innovazioni e di nuove possibilità. È possibile però che la velocità del cambiamento non si accompagni a una adeguata comprensione della sua profondità.
Siamo per lo più abituati a usare le parole in forma automatica, senza soffermarci a riflettere sul loro significato. Un esercizio sempre molto salutare è invece quello di fermarsi un momento e di pensare a quella che potremmo chiamare “area semantica” delle parole: tutti i significati che una determinata parola può assumere in diversi contesti.
La parola “comunicazione” assume rilevanza in almeno tre sensi.
- Il canale della comunicazione. “Comunicante” in questo senso indica la possibilità fisica di un movimento, di uno spostamento, di un flusso da un luogo a un altro. Se due stanze sono separate da un muro non sono comunicanti: lo sono se esiste tra loro una porta: parliamo allora di vani comunicanti, così come si usa l’espressione vasi comunicanti. Qui la comunicazione riguarda il canale, senza nessun riferimento al contenuto. Vasi e vani sono comunicanti anche se non c’è nessun trasferimento tramite essi. Allo stesso modo possiamo parlare di vie di comunicazione: strade, ferrovie, cavi telefonici…
- Il contenuto della comunicazione. Che cosa viene trasferito? Ad esempio posso parlare di un segnale radio o televisivo, cioè della trasmissione di un contenuto, senza nessun riferimento alla percezione da parte di un essere umano. Per ipotesi, se non ci fosse nessuno spettatore davanti alla tv, potremmo dire lo stesso che c’è un contenuto che viene trasmesso dalla comunicazione televisiva.
- Il soggetto della comunicazione. In molte definizioni della comunicazione si fa riferimento a una sua versione molto semplificata. La comunicazione vedrebbe coinvolti un emittente, un ricevente, un mezzo che costituisce il canale tra i due. Tale versione è povera perché pensata secondo un modello più elettrotecnico che umano: vale infatti perfettamente per una radio, che riceve il messaggio perché correttamente sintonizzata sulle frequenze d’onda dell’emittente, ma non ci dice ancora nulla sulla sua effettiva comprensione.
Interpretare per comprendere. Ma che cosa significa “comprendere” un messaggio? Un aspetto importante è quello della “retroazione”: chi ascolta dà segni di aver colto il significato rispondendo in maniera congrua. Tuttavia non è sufficiente (come invece alcuni sostengono). Ad esempio il software del programma di videoscrittura che sto utilizzando in questo momento ha una casella nella quale posso digitare una domanda circa il suo funzionamento: se lo faccio otterrò una risposta congrua, ma non per questo posso dire di aver instaurato una comunicazione.
La vera comunicazione è opera congiunta di chi “parla” e di chi “ascolta”, il quale ultimo in un certo senso collabora alla sua definizione. La nostra realtà fisica è dominata dalla relazione causa/effetto: un’azione A provoca una risposta B; detto altrimenti, c’è un “agente” (che fa) e un “paziente” (che subisce). L’unico caso in cui questa dinamica non ha luogo è la comunicazione autentica. Attenzione: non stiamo parlando delle semplici regole di buona educazione, secondo le quali non bisogna monopolizzare la conversazione ma occorre lasciare spazio all’altro. In questo caso infatti avremmo non l’abolizione del rapporto causa/effetto, ma una sua educata alternanza: “un po’ per uno”. Nella comunicazione autentica invece ogni istante è bidirezionale, perché chi ascolta non è passivo, ma collabora alla definizione dell’atto comunicativo attraverso l’interpretazione.
La comunicazione è un evento al quale collaborano in maniera imprescindibile parlante e ascoltatore: sono entrambi soggetto dell’azione. La potremmo paragonare all’arco voltaico, il ponte di luce che collega due poli elettricamente opposti. Senza uno dei due poli l’arco non si realizza.
Sarebbe opportuno riservare al concetto di “comunicazione” una valenza specificatamente umana, utilizzando piuttosto la parola “trasmettere” in casi nei quali questa collaborazione intrinseca è meno necessaria. Il linguaggio, anche a livelli molto alti, tradisce una certa confusione in proposito. Se non si è convinto l’interlocutore si dice che c’è stato un problema di comunicazione, così che si ritiene di poter superare il problema aumentando le dosi e la durata del messaggio da inviare.
Nella “trasmissione” mi attendo necessariamente una risposta “congrua”. Se do un segnale a una macchina, la macchina deve rispondermi in modo preordinato. Se non lo fa dico che la macchina è guasta oppure è stata mal progettata. Ma nel caso della comunicazione autentica la risposta imprevista e imprevedibile può essere segno di effettiva comprensione, è un più e non un meno di comunicazione. Nell’esistenza quotidiana necessariamente e normalmente facciamo uso di protocolli: non dobbiamo scandalizzarci di usare anche formule stereotipate, utili per semplificare e velocizzare le transazioni.
Il punto è che dobbiamo essere aperti anche all’ulteriorità, all’imprevisto, all’inedito. La battuta di spirito che spezza una lugubre spirale di litigi, l’improvviso emergere di una soluzione tramite una frase che spiazza la logica nelle quale ci eravamo impantanati sono esempi che ciascuno di noi può trovare nella sua esperienza.
Queste indicazioni non valgono solo per la comunicazione interpersonale. Valgono anche per la comunicazione che si avvale dei meravigliosi mezzi tecnologici che l’umanità ha saputo realizzare nel corso della sua storia. La sfida che abbiamo davanti è quella di comprenderne in profondità la natura, per trovare modalità di utilizzo che siano contemporaneamente rispettose delle loro caratteristiche, del loro linguaggio e della loro sintassi da una parte e delle esigenze di autenticità e promozione della persona umana dall’altra.
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