L’esperimento della “stanza cinese”

di Anselmo Grotti
continua la nostra riflessione sul linguaggio e sulla sua (possibile?) automazione.
Accenno ora ad un celebre esperimento mentale. Sono chiuso in una stanza, lo sperimentatore mi dà due testi in cinese (una storia e una grammatica, ma questo io non lo so, non conoscendo il cinese) e un testo, in italiano (con le regole per correlare i primi due). Imparo a mettere insieme segni che pure non capisco, riconoscendo la loro forma. Lo sperimentatore, a questo punto, fornisce un testo (sempre in cinese) con delle domande: poiché le istruzione di manipolazione dei segni sono in italiano, produco risposte (in cinese) che appaiono congrue. Lo sperimentatore chiama i primi due testi cinesi “dati” e “regole”, il terzo testo “domande”, e infine “risposte” il testo cinese da me prodotto. Si tratta ovviamente di una metafora di quello che succede “dialogando” con un computer. “Programma” è il nome delle istruzioni in italiano che mi sono state fornite. Agli occhi dello sperimentatore io ho “compreso” il cinese, perché ho dato risposte corrette, quindi “sensate”. Ma io non ho assolutamente capito nulla, anche se il mio comportamento esterno non è distinguibile da quello di un cinese madrelingua. Il pensiero non è riducibile alla manipolazione di simboli formali. Manca l’intenzionalità: il computer non intende fare niente tramite ciò che fa.
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