La storia della traduzione automatica dei testi (2)

di Anselmo Grotti
Il primo che ha guadagnato da vivere con la traduzione automatica dei testi è stato anche il primo a denunciare l’impossibilità dell’impresa. Yehoshua Bar-Hillel nel 1951 sosteneva l’urgenza di avere traduzioni di testi scientifici, finanziari, diplomatici svolte con alta precisione e velocità ragionevole. Il rapporto velocità/precisione poteva essere invertito in altri settori: bisognava esplorare l’enorme mole di carta stampata dai nemici reali o potenziali dell’Occidente: giornali, pubblicazioni, opuscoli di propaganda. In questo caso si poteva accettare una minor qualità della traduzione compensata da una grande velocità.
Le enormi difficoltà incontrate e studi ulteriori lo portarono a sostenere nel 1960 che un qualsiasi traduttore ha bisogno non solo di una grammatica e un dizionario, ma anche di conoscere tutto il resto del mondo, cioè di una sorta di enciclopedia universale: deve di fatto sapere tutto quello che conoscono gli esseri umani in generale. La molteplicità dei linguaggi umani non è dunque un accidente della storia: esprime la complessità del mondo e soprattutto la molteplicità dei modi che le varie culture hanno elaborato per farvi fronte, mettere ordine, trovare criteri e significati. Come la biodiversità, anche la diversità culturale e linguistica è un valore. Ci permette di avere più strumenti per orientarci nel mondo, evita il pericolo che l’apparente superiorità di uno di essi faccia scomparire gli altri, con il rischio di trovarci impreparati in caso di mutamento delle condizioni ambientali.
E tuttavia il grande sogno della modernità non era del tutto vano. Esprimeva anche una importante verità: la molteplicità dei linguaggi umani non impedisce la mutua comprensione, non si ferma a istituire isole separate. Secondo alcune concezioni i linguaggi hanno una funzione comunicativa solo all’interno delle culture che li hanno elaborati, per cui non sono in senso proprio traducibili. Ora, se appare ragionevole non dare per scontato l’equivalenza né della parola né del gesto nelle varie culture, pare eccessivo negare una comunicazione autentica se attuata in contesti diversi. Anche perché sarebbe poi difficile stabilire dove corrono i confini dell’isola linguistica. Tra lingue neolatine e lingue asiatiche? Tra l’italiano e il tedesco? Tra il linguaggio di un uomo e quello di una donna? Tra quello di un adulto o di un bambino? Di un ricco e di un povero? Di un negro e di un bianco? Di un ateo o di un credente? Di un cristiano e di un musulmano? Di un cattolico o di un protestante? Di un essere umano del 2015 o del XVII secolo?
Tradurre automaticamente è possibile. Ed è possibile interagire con le macchine attraverso comandi vocali. Ma si tratta di applicazioni pragmatiche, utili per la vita quotidiana. Purché non ci rendano assuefatti a un linguaggio stereotipato, impoverito, prevedibile. La vicenda della traduzione automatica dei testi ci insegna l’umiltà nel tentativo di comprendere il linguaggio dell’altro, l’importanza di ascoltare non solo le parole, ma anche il tono; di conoscere non solo quanto viene detto ma anche ciò che resta implicito, di rispettare e apprezzare non solo l’interlocutore ma anche la sua cultura di provenienza. Esprime anche il desiderio, squisitamente umano, di comunicare anche oltre i confini del sé, del clan, della stessa lingua madre. L’implicito, per sua stessa natura, non è formalizzabile. Ogni dialogo autenticamente umano non può che essere aperto a uno spazio di inedito, imprevisto, nuovo.
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