L’importanza di essere in rete

Anselmo Grotti
Se pensiamo a un social network, ci vengono in mente cose come Facebook, Twitter, e simili. Se pensiamo a cosa ci si possa fare, magari ci viene in mente la possibilità di comunicare i propri pensieri anche in zone sottoposte a dittature e a violazioni della libertà di stampa. Più facilmente però ci vengono in mente chiacchiere, foto di cibi consumati o degustati, vicende più o meno private esibite in pubblico, se non offese, volgarità e bullismo. Oppure ancora sofisticati sistemi per raccogliere informazioni da sottoporre ad analisi approfondite per conoscere gusti e tendenze.
Eppure l’espressione “social network” di per sé rimanda semplicemente a un collegamento di persone, e la troviamo all’origine di una realtà oggi ben nota: Amnesty International. Questa associazione è stata fondata nel 1961 da un avvocato inglese, Peter Benenson, e la possiamo davvero definire una sorta di social ante litteram. In un articolo pubblicato sul quotidiano di Londra The Observer Benenson aveva lanciato un “Appello per l’amnistia”, a favore di due studenti portoghesi arrestati per aver brindato alla libertà. Benenson si chiedeva anche cosa può fare un singolo di fronte a queste ingiustizie, e proponeva che altri si unissero per svolgere una pacifica pressione sui governi dittatoriali, come a quel tempo il Portogallo. Quando leggiamo sui giornali che qualcuno è in galera solo per le sue idee, scriveva, ci sentiamo indignati e impotenti. Tante persone cominciarono a scrivere lettere ai capi di stato. Dopo 50 anni la media è di tre persone liberate al giorno. Nel 1975 Amnesty International ha ottenuto il premio Nobel per la pace.
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