In tempo di connessione virtuale incontrollata e manipolata, è forse utile ripensare a quanto è successo durante una performance artistica di alcuni anni fa.

New York, Museum of Modern Art (MoMA), 2010. Folle di visitatori si accalcano all’entrata. Certo, c’è sempre gente al MoMA. Ma in questo caso ce n’è ancora di più: e non per vedere una mostra. E nemmeno soltanto per vedere un artista. Ma soprattutto per vedere l’artista ed essere visti da lei.

L’evento si chiama proprio “The Artist is Present”. L’artista è Marina Abramovic, nel 2012 ne viene estratto un docu-film di 99 minuti. La semplicità dell’installazione è estrema e radicale: solo lei e un interlocutore che si guardano negli occhi, in silenzio. L’interlocutore si alza, lei chiude gli occhi e li riapre quando sulla sedia c’è un altro. I due si guardano, a lungo. Nient’altro. Qualcuno piange. Dal 14 marzo al 31 maggio, due persone sole in una grande sala, per sei giorni alla settimana, per l’intero orario di apertura del museo.

Nell’epoca delle relazioni mediate dalla tecnologia si esprime un forte bisogno di guardare ed essere guardati. Marina Abramovic è un’artista che ha realizzato esperienze estreme e non sempre condivisibili. Si coglie però una profonda verità in questa totale attenzione tra due soggetti. Guardare negli occhi significa necessariamente anche essere guardati nei proprio occhi, un modello, un archetipo della comunicazione e della relazione autentiche.

 Non è un caso se questa enorme energia dello sguardo la si ritrova in contesti molto diversi dal MoMA. Bledar Xhuli è un giovane albanese giunto in Italia a 16 anni. Adesso è sacerdote e nel novembre 2015 ha incontrato papa Francesco durante la sua visita a Firenze. Doveva raccontargli la sua storia e rivolgergli un saluto. Ma invece di leggere il discorso preparato, ha sempre guardato il papa in volto: “Non volevo staccare gli occhi dal suo sguardo”.

Antropologia, Comunicazione, in primo piano, Tecnologia, Umanesimo