Parlare “semplice”?

Anselmo Grotti

Parlare “difficile” è sempre stato visto come un modo per ingannare le persone, non facendo capire ciò che si dice. È il celebre “latinorum” contro cui polemizza Renzo nei Promessi Sposi. Il parlare “facile” è sinonimo di democrazia? Tutt’altro. Pensiamo al dibattito politico. Da un lato c’è la pervasività dei mezzi di comunicazione, dall’altra la nostra pigrizia e il poco tempo che abbiamo: ne nasce una scarsità di consapevolezza che ci porta a preferire lo slogan e la semplificazione. Il New York Times ha notato che nei discorsi di Donald Trump non ci sono in genere più di dodici parole, e che ogni parola è in genere di due sillabe. In Italia un celebre politico ha sempre invitato gli esponenti del suo partito a rivolgersi agli elettori inquadrandoli all’età mentale della seconda media. C’è chi usa le felpe, e chi le slides. Purtroppo la realtà invece è complessa. Il punto è proprio questo: lo scopo è quello di convincere l’interlocutore pigro, non di risolvere il problema. Anzi: se il problema fosse risolto, non ci sarebbe più il consenso. Trump può promettere di rispedire a casa gli 11 milioni di migranti irregolari che sono già negli Usa, o di non far entrare i musulmani. Sa benissimo che è impossibile farlo, non tanto per considerazioni etiche ma per motivi economici. Non intende risolvere il problema, solo utilizzarlo. È il permanere del problema che garantisce i voti. Dobbiamo ricordare che davanti a un problema complesso c’è sempre una soluzione semplice. Peccato che in genere sia quella sbagliata.

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