Il linguaggio banalizzato

Anselmo Grotti

La settimana scorsa abbiamo parlato del linguaggio banalizzato in politica. Ma a sua volta questo impoverimento nasce in un contesto più ampio, presente nel linguaggio comune. Prendiamo ad esempio la musica leggera.  Secondo uno studio di Priceonomics negli anni ’60 poco più dell’8% delle canzoni avevano il titolo di una sola parola; oggi siamo al 25%. Spesso sono quelle di maggior successo: “Happy” (Williams); “Sorry” (Bieber), “Hello” (Adele).  Sempre negli anni ’60 in media un titolo aveva 3,76 parole; oggi 2,72.  Rihanna in “Work” (2016) ripete per 79 volte la parola del titolo. Secondo Priceonomics «se i Beatles facessero canzoni ancora oggi, il loro produttore gli farebbe pressione per far sì che il ritornello di “I Want to Hold Your Hand” diventi “Hand Hand Hand Hand Hand Hand, I want to hold your hand” e la canzone possa chiamarsi “Hand”».  È in fondo la logica di “Mi piace/Non mi piace” presente nei social network ma anche nel nostro vivere quotidiano. La logica dei Talent dove si vota in maniera brutale per il sì o per il no.  Facebook ha di recente ampliato la gamma di possibili reazioni, ma siamo ancora molto lontani dalla capacità del linguaggio di cogliere le differenze. Parole come gioia, allegria, felicità, contentezza, gaiezza, giocondità, letizia, festosità, esultanza, ilarità, vivacità, brio, piacere, godimento, beatitudine, dolcezza, soddisfazione, delizia, diletto… non sono sinonimi.

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