San Rocco e la piaga della peste – Arezzo 1477/1479 – nella pittura di Bartolomeo della Gatta

San Rocco e la piaga della peste - Arezzo 1477/1479 - nella pittura di Bartolomeo della Gatta

In questo preciso momento storico, di emergenza sanitaria, a causa del coronavirus; il nemico con cui ci troviamo a combattere, non è solamente il coronavirus, ma la paura. Julian Carron, in un articolo uscito in questo periodo ( “ Ecco come nelle difficoltà impariamo a battere la paura “ – Corriere della Sera, 01.03. 2020 ) afferma: << La domanda  che sorge in questo momento, più potente di qualsiasi altra , è: che cosa vince la paura? Forse l’esperienza più elementare di cui tutti disponiamo in proposito è quella del bambino. Che cosa vince la paura in un bambino ? La presenza della mamma. Questo “metodo”  vale per tutti. E’ una presenza, non le nostre strategie, la nostra intelligenza, il nostro coraggio, ciò che mobilita e sostiene la vita di ognuno di noi. Ma – domandiamoci – quale presenza è in grado di vincere la paura profonda, quella che ci attanaglia al fondo del nostro essere? Non qualsiasi presenza. E’ per questo che Dio si è fatto uomo, è diventato una presenza storica, carnale. Solo il Dio che entra nella storia come uomo può vincere la paura profonda, come ha testimoniato ( e testimonia ) la vita dei suoi discepoli >> , [ e dei suoi santi ]. A questo proposito, voglio ricordare a tutti noi, in questo periodo difficile ma ricco di ricerca di senso; la vita e la testimonianza  di San Rocco; il santo più invocato fin dal Medioevo come protettore contro la terribile piaga della peste, la sua popolarità e devozione che continua ad essere enorme, soprattutto in Asia in questo momento, secondo quanto testimoniano i missionari che operano lì. La sua protezione si è gradualmente estesa al mondo agricolo, agli animali e ai grandi disastri, come terremoti, epidemie e malattie gravi. Più di recente, la sua protezione è anche un esempio di solidarietà umana e carità cristiana, sotto il segno del volontariato.

San Rocco nacque a Montpellier, ( Francia  1295? ) era figlio di un governatore. I suoi anziani genitori  lo ebbero dopo preghiere insistenti, promettendo di dare a Dio il figlio che avrebbe donato loro. Quando i genitori morirono, Rocco aveva 20 anni e decise di vendere i suoi beni e farsi povero in Cristo, come San Francesco d’Assisi. Entrò nel Terz’ Ordine e vestito da pellegrino prese la strada di Roma, chiedendo l’elemosina. Durante la peste scoppiata in Italia durante la prima metà del XIV secolo, si dedicò  a curare le vittime e ottenne molte guarigioni. Fu a sua volta colpito dalla malattia, e tornando a Montpellier, in fin di vita, si ritirò in una capanna in mezzo ai  boschi  dove un cane gli portava il pane tutti i giorni. Per questo nella storia dell’arte viene rappresentato molto spesso con un cane accanto. Miracolosamente guarito, ricomparve a Montpellier senza rendere nota la sua identità, e considerato una spia venne incarcerato. Morì cinque anni dopo, avendo ricevuto i sacramenti e rivelando la sua identità al sacerdote. Poco dopo la morte, il suo culto divenne molto popolare in Italia, Francia e in tutta la Chiesa. San Rocco è il grande protettore invocato nelle epidemie di peste dal Concilio di Ferrara, dopo le gravi conseguenze di questo male proveniente dall’Est e trasmesso dai marinai, in particolare a Venezia, Marsiglia, Lisbona, Ambères e in Germania. La sua festa si celebra il 16 agosto. Ecco una breve preghiera di intercessione a San Rocco:

Rocco, pellegrino laico in Europa,

contagiato, incarcerato,

tu che hai guarito i corpi

e hai portato gli uomini a Dio,

intercedi per noi

e salvaci dalle miserie

del corpo e dell’anima.

Anche ad Arezzo, in seguito alla peste che colpì la città, tra il dicembre del 1477 e l’agosto del 1479, vi fu un grande fermento devozionale nei riguardi di San Rocco, da tempo venerato e invocato al punto da realizzare in suo onore, in città,  due tavole dipinte,  una per la Pieve di Arezzo, ( 1478 c. ) posta sull’altare dei Lippi, l’altra successiva, ( 1479 ) voluta dai Rettori dell’opera caritatevole della Fraternita dei Laici, per rendere grazie al Santo che permise la fine della violenta epidemia che aveva mietuto quasi 4000 vittime. Le opere furono eseguite dal pittore rinascimentale Pietro di Antonio Dei, ( Firenze 1448 – Arezzo 1502 ) conosciuto attraverso il Vasari de le “ Vite “, con il nome di Bartolomeo della Gatta, e così descritto nel suo incipit  : << Rade volte suole avvenire che chi è d’animo buono e di vita esemplare, non sia dal cielo proveduto d’amici ottimi e di abitazioni onorate, e che per i buoni costumi suoi non sia vivendo in venerazione, e morto in grandissimo disiderio di chiunque; come fa Don Bartolomeo della Gatta, abbate di S. Clemente d’ Arezzo >>, che si fece monaco camaldolese a Firenze, nel monastero di Santa Maria degli Angeli e successivamente divenne monaco e abate dell’importante monastero di San Clemente, ad Arezzo, punto di riferimento assieme a tanti altri bellissimi edifici religiosi, posti sulla antica Via Sacra aretina ( oggi, Via Garibaldi ). In quello stesso monastero fiorentino che fu fondato nel 1295 dal poeta Guittone d’ Arezzo, cavalier Gaudente, appartenente all’ordine dei frati gaudenti ; Bartolomeo venne in contatto  con una celebre scuola di miniatura che ebbe tra gli esponenti più famosi, Lorenzo Monaco e figure di  importanti Umanisti e futuri Papi, ( Tomaso Parentucelli – Niccolò V ) ospiti e discepoli del grande priore generale dell’Ordine Camaldolese, Ambrogio Traversari. << Costui, il quale fu monaco degl’Agnoli di Firenze, dell’Ordine di Camaldoli, fu nella sua giovinezza, forse per le cagioni che di sopra si dissono nella vita di don Lorenzo [ Monaco], miniatore singularissimo e molto pratico nelle cose del disegno, come di ciò possono far fede le miniature lavorate da lui per i monaci di S. Fiore e Lucilla nella Badia di Arezzo, et in particolare un messale che fu donato a papa Sisto, nel quale era nella prima carta delle segrete una Passione di Cristo bellissima . E quelle parimente sono di sua mano, che sono in San Martino, Duomo di Lucca >>. ( G. Vasari – Le Vite ).

Durante il Rinascimento,  per quanto riguarda l’arte, a parte l’episodio capitale di Piero della Francesca nella basilica di  S. Francesco, Arezzo riflette un clima un po’ provinciale ma non privo di certi suoi valori originali.  << Lo stato di umiliazione e di miseria in cui venne ridotta la città dal governo fiorentino non invitava i migliori figli della terra aretina a rimanervi: se n’andò Masaccio ( 1401-1427 ), se n’andò Paolo Uccello ( 1397?-!475 ), se n’andò a Firenze anche Piero della Francesca, benchè abbia dato ad Arezzo il suo capolavoro. Ma ci fu anche chi venne per qualche tempo ad Arezzo, o vi inviò qualche sua opera: il Rossellino, il Pollaiolo ed altri; o rimase per sempre, come Pietro di Antonio Dei >>. ( A. Tafi – Immagini di Arezzo ).

Nella formazione artistica di Pietro di Antonio Dei , ( Bartolomeo della Gatta ) figlio di un orafo, iscritto dal padre alla corporazione dei maestri orafi fiorentini alla sola età di cinque anni; non possiamo dimenticare l’ importante apprendistato verso il1468, presso la bottega del Verrocchio, dove farà conoscenza con i  più grandi artisti dell’epoca, fra i quali Botticelli, Ghirlandaio, Leonardo da Vinci, Lorenzo di Credi, Perugino e Luca Signorelli  e l’influsso del Pollaiolo che si riflette nel realizzare corpi asciutti e innervati, volti smagriti e dolenti, con un’aristocrazia formale molto rara. Ebbe personalità e qualità  pittoriche superiori in alcune opere, a Luca Signorelli e Perugino e forse fu il più dotato degli allievi di Piero della Francesca. Lavorò molto in Arezzo e nel suo vasto territorio, tra Sansepolcro, Cortona, Castiglion Fiorentino, Monte San Savino e Marciano della Chiana. Fu  artista virtuoso e versatile, immerso nel clima culturale del  pieno Rinascimento, ancora Vasari ci parla di lui: << Fu don Bartolomeo persona che ebbe l’ingegno atto a tutte le cose; et oltre all’essere gran musico  fece organi di piombo di sua mano; et in San Domenico ne fece uno di cartone, che si è sempre mantenuto dolce e buono; et in San Clemente n’era un altro pur di sua mano, il quale era in alto et aveva la tastatura da basso al pian del coro, e certo con bella considerazione, perché avendo, secondo la qualità del luogo, pochi monaci, voleva che l’organista cantasse e sonasse, e perché questo abbate amava la sua Religione come vero ministro e non dissipatore delle cose di Dio, bonificò molto quel luogo di muraglie e di pitture, e particolarmente rifece la cappella maggiore della sua chiesa e quella tutta dipinse. Et in due nicchie che la mettevano in mezzo dipinse in una un San Rocco e nell’altra un San Bartolomeo, le quali insieme con la chiesa sono rovinate. Ma tornando all’abbate, il quale fu buono e costumato religioso, egli lasciò suo discepolo nella pittura maestro Lappoli aretino., che fu valente e pratico dipintore…….Fu discepolo similmente  dell’abbate di San Clemente un frate de’ Servi aretino,  [Martino ] che dipinse di colori la facciata della casa de’ Belichini d’ Arezzo et in San Piero due cappelle a fresco, l’una allato all’altra. Fu anche discepolo di don Bartolomeo, Domenico Pecori aretino, il quale fece a Sargiano in una tavola a tempera tre figure, et a olio, per la Compagnia di S. Maria Madalena, un gonfalone da portare a processione, molto bello >>. ( G. Vasari – Le Vite )

Non fu inoltre casuale,  per i contatti mantenuti sempre con la sua Firenze e gli importanti artisti conosciuti, che Bartolomeo della Gatta, intorno al 1482 ( forse tra l’aprile e l’ottobre )  facesse parte del gruppo di pittori fiorentini ( Perugino, Botticelli, Cosimo Rosselli e il Ghirlandaio – per dire solo di quelli ricordati nel contratto di allogagione – chiamati ad affrescare le pareti della Sistina con episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento: le Storie della vita di Mosè  giustapposte alle Storie della vita di Cristo. Non è ancora ben definito il contributo che  don Bartolomeo diede al ciclo romano ma, di sicuro egli dovette affiancare, sicuramente non  in una posizione subalterna, Luca Signorelli nell’episodio del Testamento e morte di Mosè, dove la sua mano è evidente nel gruppo delle donne e dei fanciulli in primo piano al centro della scena. La fama riportata da don Bartolomeo, come dagli altri artisti, dopo l’intervento sulle pareti del sacello voluto da Sisto IV, gli dovette procurare un maggior numero di commissioni da parte delle istituzioni laiche e religiose di Arezzo e del territorio.

Ed ora volendo rivolgere nuovamente  il nostro sguardo alle due tempere su tavola che hanno come protagonista San Rocco, conservate una nel Palazzo della Fraternita dei Laici ( da poco rientrata nella sede originaria ) e l’altra nel Museo Statale di Arte Medievale e Moderna, di Arezzo, non possiamo fare a meno di chiedere nuovamente aiuto al nostro Vasari che a tal proposito racconta : << Venendo poi la peste del 1468, per la quale senza molto praticare si stava l’abbate, sì come facevano  anco molti altri, in casa si diede a dipignere figure grandi, e vedendo che la cosa secondo il desiderio suo gli riusciva, cominciò a lavorare alcune cose, e la prima fu un S. Rocco, che fece in tavola ai rettori della Fraternita d’ Arezzo, che è oggi nell’udienza dove si ragunano; la quale figura raccomanda alla Nostra Donna il popolo aretino; et in questo quadro ritrasse la piazza di detta città e la casa pia di quella Fraternita con alcuni becchini che tornano da sotterrare morti. Fece anco un altro S. Rocco, similmente in tavola, nella chiesa di S.Piero, dove ritrasse la città d’Arezzo nella forma propria che aveva in quel tempo, molto diversa da quella che è oggi; et un altro il quale  fu molto migliore che li due sopra detti, in una tavola ch’è nella chiesa della Pieve d’ Arezzo alla cappella de’ Lippi; il quale S.Rocco è una bella e rara figura, e quasi la meglio che mai facesse, e la testa e le mani non possono essere più belle ne più naturali >> ( G. Vasari – “ Le Vite “ ).

San Rocco allontana da Arezzo il flagello della peste ( tempera su tavola, 185X 74 – Museo Statale d’ Arte Medievale e Moderna di Arezzo)

La tavola risale al 1478 circa e proviene dalla Pieve di Arezzo, posta in origine sull’altare della cappella Lippi, passò poi alla Fraternita dei Laici. Vi è raffigurato San Rocco che, inginocchiato in sottilissime definizioni plastiche evidenziate dalla luce e da una acutezza ottica fiamminga, mostra uno stupendo profilo, nell’atto di pregare devotamente Cristo, posto nella parte alta della tavola, mentre alcuni angeli, in suggestivi scorci prospettici,  che richiamano la pittura di Botticelli, stanno scagliando frecce ( simbolo della pestilenza ) su Arezzo. Il panorama della città sullo sfondo, oltre a richiamare il reale fatto storico accaduto e la concreta invocazione  del santo, possiede  un notevolissimo valore documentario, essendo l’unica rappresentazione veridica e attendibile di Arezzo nel Quattrocento. Vasari ci fa notare come questo San Rocco è: << una bella e rara figura, e quasi la meglio che mai facesse, e la testa e le mani non possono essere più belle ne più naturali  >>. ( G. Vasari – “ Le Vite “ ).

San Rocco davanti alla Fraternita dei Laici ( tempera su tavola, 215X115 – Quadreria della Fraternita dei Laici, Arezzo; precedentemente nel Museo Statale d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo).

La tavola riporta la data del 1479 e fu commissionata dai Rettori  della Fraternita della Laici, i cui nomi compaiono nella iscrizione, per la Sala dell’Udienza nel Palazzo di Piazza Grande. San Rocco è in piedi e tende il suo volto e tutta la sua aggraziata figura in atteggiamento orante, verso la persona della Vergine Maria ammantata che ci ricorda una “ Mater Misericordiae “, come il popolo aretino è abituato a conoscere,  pronta a proteggere tutti i suoi figli, sullo sfondo di Piazza Grande. Anche questa veduta ha notevole valore documentario ( vi si vede il Palazzo della Fraternita ) oltre che artistico: si notino << il risoluto impianto prospettico di Piazza Grande >>, il grandeggiare su quello sfondo della figura di San Rocco << gigantesca come un S. Cristoforo >> ( M. Salmi ), la piazza deserta salvo << alcuni becchini che tornano da sotterrare i morti >> ( G. Vasari ).

                                                                                                   Pierangelo Mazzeschi

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